venerdì 26 gennaio 2018

RECENSIONE: HEATER MORRIS - IL TATUATORE DI AUSCHWITZ


Sinossi:

Il cielo di un grigio sconosciuto incombe sulla fila di donne. Da quel momento non saranno più donne, saranno solo una sequenza inanimata di numeri tatuati

sul braccio. Ad Auschwitz, è Lale a essere incaricato di quell’orrendo compito: proprio lui, un ebreo come loro. Giorno dopo giorno Lale lavora a testa

bassa per non vedere un dolore così simile al suo finché una volta alza lo sguardo, per un solo istante: è allora che incrocia due occhi che in quel mondo

senza colori nascondono un intero arcobaleno. Il suo nome è Gita. Un nome che Lale non potrà più dimenticare. Perché Gita diventa la sua luce in quel buio

infinito: racconta poco di lei, come se non essendoci un futuro non avesse senso nemmeno un passato, ma sono le emozioni a parlare per loro. Sono i piccoli

momenti rubati a quella assurda quotidianità ad avvicinarli. Dove sono rinchiusi non c’è posto per l’amore. Dove si combatte per un pezzo di pane e per

salvare la propria vita, l’amore è un sogno ormai dimenticato. Ma non per Lale e Gita, che sono pronti a tutto per nascondere e proteggere quello che hanno.

E quando il destino tenta di separarli, le parole che hanno solo potuto sussurrare restano strozzate in gola. Parole che sognano un domani insieme che

a loro sembra precluso. Dovranno lottare per poterle pronunciare di nuovo. Dovranno conservare la speranza per urlarle finalmente in un abbraccio. Senza

più morte e dolore intorno. Solo due giovani e la loro voglia di stare insieme. Solo due giovani più forti della malvagità del mondo.

 

Commento:

Sul treno che lo allontana da casa sua, da Bratislava, dalla sua famiglia, Lale si aspetta di lavorare per i tedeschi: è questo che chiedeva il comunicato, un figlio maschio per ogni famiglia ebrea e lui, il secondogenito, si è offerto volontario per salvare i suoi. D’altronde Lale sa parlare tante lingue, è giovane, legge, ha una cultura: di sicuro gli daranno un lavoro decoroso. Ma già alla fine del viaggio in quel “carro bestiame” Lale capisce che non sarà così: è giunto ad Aushwitz-Birkenau, al confine tra Germania e Polonia, insieme a tanti, troppi prigionieri come lui e mentre lo obbligano a lasciare i suoi averi personali, fare la doccia, camminare in fila sotto la minaccia di una pallottola, mentre gli tatuano il numero identificativo, le sue illusioni si sgretolano. Sin da subito Lale si dà delle regole: parlare poco, osservare sempre e soprattutto sopravvivere, uscire vivo da lì per raccontare tutto al mondo.

Quando si ammala di tifo, l’altruismo dei compagni di blocco gli salva la vita e, grazie all’aiuto di un francese, comincia a lavorare come tatuatore. E’ mentre sta lavorando, in preda all’orrore per dover profanare i corpi di altri prigionieri come lui, che due occhi fra tanti lo stregano, gli si imprimono nella mente e nel cuore: sono gli occhi di Gita, slovacca come lui, che da quel momento diventerà per Lale l’unica ragione di sopravvivenza. Per via del suo lavoro, Lale gode di una posizione “privilegiata” nel campo, così sfrutta la sua arguzia ed il suo senso pratico per fare qualcosa per gli altri: aiuta qualcuno a trovare un lavoro migliore e meno rischioso, procura cibo e medicinali, dà consigli utili a tutti. Ma in cima ai suoi pensieri c’è sempre Gita e quando sono costretti a separarsi, i due giovani giurano di ritrovarsi per costruire il loro futuro senza più morte e dolore.

Un libro che, con lucidità e realismo, racconta una storia drammatica di sopraffazione, abusi, umiliazioni, ma anche di speranza ed amore. Ciò che più colpisce e che distingue questo da altri racconti è lo stile in cui è scritto: è quasi una cronaca, una voce fuori campo che descrive ciò che accade con precisione ed impersonalità, cosa che contrasta con la profonda intimità delle sofferenze narrate che risultano così più chiare ed acute. L’autrice, che ha conosciuto di persona Lale ormai anziano, racconta questa storia al presente, facendoci entrare nel campo con i prigionieri, permettendoci quasi di vederli camminare davanti a Lale porgendogli il braccio ed il talloncino di carta con il numero identificativo. Ci sembra, leggendo, di visualizzare le vicende come in un film muto eppure non meno cruento e doloroso. Fino alla fine del racconto non sappiamo cosa accadrà a Gita e Lale, se si ritroveranno, se riusciranno a scappare, se sopravviveranno e tutto questo rende la percezione degli accadimenti più forte ed intensa.

Consiglio la lettura di questo libro perché, come affermava Primo Levi, “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario” e su argomenti come questo, sebbene si sia letto tanto, non bisogna mai credere di saperne abbastanza. Ad esempio, esistono tanti racconti di sopravvissuti ai campi di sterminio, tutti conosciamo l’orribile pratica di imprimere un numero identificativo su un braccio dei prigionieri, ma ci eravamo mai chiesti chi svolgesse quel compito ingrato? O abbiamo mai riflettuto su chi schedasse i prigionieri in arrivo o in partenza dai campi e quali implicazioni questi lavori avessero avuto nella vita e nel futuro di quelle persone? Forse sì, forse no… di certo questo libro ce ne fornisce un assaggio. E allora leggiamole queste storie, non solo in occasione della Giornata della memoria, ma sempre… perché non possiamo permetterci di dimenticare.

 

 

Opera recensita: “Il tatuatore di Auschwitz” di Heather Morris

Editore: Garzanti, 2018

Genere: narrativa straniera – biografia

Ambientazione: Germania-Polonia-Austria-Slovacchia, 1942-1945

Pagine: 208

Prezzo: 17,90 €

Consigliato: sì

Voto personale: 8,5

 

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