Sinossi:
Il cielo di un grigio sconosciuto incombe sulla fila di
donne. Da quel momento non saranno più donne, saranno solo una sequenza
inanimata di numeri tatuati
sul braccio. Ad Auschwitz, è Lale a essere incaricato di
quell’orrendo compito: proprio lui, un ebreo come loro. Giorno dopo giorno Lale
lavora a testa
bassa per non vedere un dolore così simile al suo finché una
volta alza lo sguardo, per un solo istante: è allora che incrocia due occhi che
in quel mondo
senza colori nascondono un intero arcobaleno. Il suo nome è
Gita. Un nome che Lale non potrà più dimenticare. Perché Gita diventa la sua
luce in quel buio
infinito: racconta poco di lei, come se non essendoci un
futuro non avesse senso nemmeno un passato, ma sono le emozioni a parlare per
loro. Sono i piccoli
momenti rubati a quella assurda quotidianità ad avvicinarli.
Dove sono rinchiusi non c’è posto per l’amore. Dove si combatte per un pezzo di
pane e per
salvare la propria vita, l’amore è un sogno ormai
dimenticato. Ma non per Lale e Gita, che sono pronti a tutto per nascondere e
proteggere quello che hanno.
E quando il destino tenta di separarli, le parole che hanno
solo potuto sussurrare restano strozzate in gola. Parole che sognano un domani
insieme che
a loro sembra precluso. Dovranno lottare per poterle
pronunciare di nuovo. Dovranno conservare la speranza per urlarle finalmente in
un abbraccio. Senza
più morte e dolore intorno. Solo due giovani e la loro
voglia di stare insieme. Solo due giovani più forti della malvagità del mondo.
Commento:
Sul treno che lo allontana da casa sua, da Bratislava, dalla
sua famiglia, Lale si aspetta di lavorare per i tedeschi: è questo che chiedeva
il comunicato, un figlio maschio per ogni famiglia ebrea e lui, il
secondogenito, si è offerto volontario per salvare i suoi. D’altronde Lale sa
parlare tante lingue, è giovane, legge, ha una cultura: di sicuro gli daranno
un lavoro decoroso. Ma già alla fine del viaggio in quel “carro bestiame” Lale
capisce che non sarà così: è giunto ad Aushwitz-Birkenau, al confine tra
Germania e Polonia, insieme a tanti, troppi prigionieri come lui e mentre lo
obbligano a lasciare i suoi averi personali, fare la doccia, camminare in fila
sotto la minaccia di una pallottola, mentre gli tatuano il numero identificativo,
le sue illusioni si sgretolano. Sin da subito Lale si dà delle regole: parlare
poco, osservare sempre e soprattutto sopravvivere, uscire vivo da lì per
raccontare tutto al mondo.
Quando si ammala di tifo, l’altruismo dei compagni di blocco
gli salva la vita e, grazie all’aiuto di un francese, comincia a lavorare come
tatuatore. E’ mentre sta lavorando, in preda all’orrore per dover profanare i
corpi di altri prigionieri come lui, che due occhi fra tanti lo stregano, gli
si imprimono nella mente e nel cuore: sono gli occhi di Gita, slovacca come lui,
che da quel momento diventerà per Lale l’unica ragione di sopravvivenza. Per
via del suo lavoro, Lale gode di una posizione “privilegiata” nel campo, così
sfrutta la sua arguzia ed il suo senso pratico per fare qualcosa per gli altri:
aiuta qualcuno a trovare un lavoro migliore e meno rischioso, procura cibo e
medicinali, dà consigli utili a tutti. Ma in cima ai suoi pensieri c’è sempre
Gita e quando sono costretti a separarsi, i due giovani giurano di ritrovarsi
per costruire il loro futuro senza più morte e dolore.
Un libro che, con lucidità e realismo, racconta una storia
drammatica di sopraffazione, abusi, umiliazioni, ma anche di speranza ed amore.
Ciò che più colpisce e che distingue questo da altri racconti è lo stile in cui
è scritto: è quasi una cronaca, una voce fuori campo che descrive ciò che
accade con precisione ed impersonalità, cosa che contrasta con la profonda intimità
delle sofferenze narrate che risultano così più chiare ed acute. L’autrice, che
ha conosciuto di persona Lale ormai anziano, racconta questa storia al
presente, facendoci entrare nel campo con i prigionieri, permettendoci quasi di
vederli camminare davanti a Lale porgendogli il braccio ed il talloncino di
carta con il numero identificativo. Ci sembra, leggendo, di visualizzare le
vicende come in un film muto eppure non meno cruento e doloroso. Fino alla fine
del racconto non sappiamo cosa accadrà a Gita e Lale, se si ritroveranno, se
riusciranno a scappare, se sopravviveranno e tutto questo rende la percezione
degli accadimenti più forte ed intensa.
Consiglio la lettura di questo libro perché, come affermava
Primo Levi, “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario” e su argomenti
come questo, sebbene si sia letto tanto, non bisogna mai credere di saperne
abbastanza. Ad esempio, esistono tanti racconti di sopravvissuti ai campi di
sterminio, tutti conosciamo l’orribile pratica di imprimere un numero
identificativo su un braccio dei prigionieri, ma ci eravamo mai chiesti chi
svolgesse quel compito ingrato? O abbiamo mai riflettuto su chi schedasse i
prigionieri in arrivo o in partenza dai campi e quali implicazioni questi
lavori avessero avuto nella vita e nel futuro di quelle persone? Forse sì,
forse no… di certo questo libro ce ne fornisce un assaggio. E allora leggiamole
queste storie, non solo in occasione della Giornata della memoria, ma sempre…
perché non possiamo permetterci di dimenticare.
Opera recensita: “Il tatuatore di Auschwitz” di Heather
Morris
Editore: Garzanti, 2018
Genere: narrativa straniera – biografia
Ambientazione: Germania-Polonia-Austria-Slovacchia,
1942-1945
Pagine: 208
Prezzo: 17,90 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8,5
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