lunedì 10 ottobre 2016

RECENSIONE: MILAN KUNDERA - L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL'ESSERE


Sinossi:

Protetto da un titolo enigmatico, che si imprime nella memoria come una frase musicale, questo romanzo obbedisce fedelmente al precetto di Hermann Broch: «Scoprire ciò che solo un romanzo permette di scoprire». Questa scoperta romanzesca non si limita all’evocazione di alcuni personaggi e delle loro complicate storie d’amore, anche se qui Tomáš, Teresa, Sabina, Franz esistono per noi subito, dopo pochi tocchi, con una concretezza irriducibile e quasi dolorosa. Dare vita a un personaggio significa per Kundera «andare sino in fondo a certe situazioni, a certi motivi, magari a certe parole, che sono la materia stessa di cui è fatto». Entra allora in scena un ulteriore personaggio: l’autore. Il suo volto è in ombra, al centro del quadrilatero amoroso formato dai protagonisti del romanzo: e quei quattro vertici cambiano continuamente le loro posizioni intorno a lui, allontanati e riuniti dal caso e dalle persecuzioni della storia, oscillanti fra un libertinismo freddo e quella specie di compassione che è «la capacità massima di immaginazione affettiva, l’arte della telepatia, delle emozioni». All’interno di quel quadrilatero si intreccia una molteplicità di fili: un filo è un dettaglio fisiologico, un altro è una questione metafisica, un filo è un atroce aneddoto storico, un filo è un’immagine. Tutto è variazione, incessante esplorazione del possibile. Con diderotiana leggerezza, Kundera riesce a schiudere, dietro i singoli fatti, altrettante domande penetranti e le compone poi come voci polifoniche, fino a darci una vertigine che ci riconduce alla nostra esperienza costante e muta. Ritroviamo così certe cose che hanno invaso la nostra vita e tendono a passare innominate dalla letteratura, schiacciata dal loro peso: la trasformazione del mondo intero in una immensa «trappola», la cancellazione dell’esistenza come in quelle fotografie ritoccate dove i sovietici fanno sparire le facce dei personaggi caduti in disgrazia. Esercitato da lungo tempo a percepire nella «Grande Marcia» verso l’avvenire la più beffarda delle illusioni, Kundera ha saputo mantenere intatto il pathos di ciò che, intessuto di innumerevoli ritorni come ogni amore torturante, è pronto però ad apparire un’unica volta e a sparire, quasi non fosse mai esistito.

 

Questo libro era nella mia wishlist da molto, molto tempo ed ora che l’ho finalmente terminato non so come cominciare la mia recensione: le cose da dire sarebbero tante, ma ho paura di cadere nel banale e dire meno di quanto vorrei.

Tanto per cominciare siamo a Praga, in quella che oggi conosciamo come Repubblica Ceca, ma che al tempo della storia era ancora la Boemia. L’occupazione sovietica è un’ombra pressante per le strade della città e nelle vite dei suoi abitanti. Microfoni e cineprese registrano le loro conversazioni che vengono ascoltate dalla polizia segreta e talvolta trasmesse in radio. E’ in questo clima di terrore appena velato che nasce e cresce la storia di Tomàs e Teresa, colonna portante di questo romanzo così particolare.

E’ dall’incontro di queste due anime che, con tono dapprima distaccato e via via sempre più partecipe, Kundera comincia il suo racconto crudelmente concreto.

Lei è una ragazza di umili origini, costretta in una casa ed in una famiglia asfissianti, dove il concetto di privacy è sconosciuto; lui è un chirurgo importante e stimato da tutti, un uomo che ha paura di legarsi ad una donna, che ama fare l’amore, ma non dormire con qualcuno, un traditore inguaribile ed impenitente. Ma stranamente con Teresa c’è qualcosa di diverso, di più profondo, può dormire con lei, può farci l’amore, può anche vivere la sua vita al suo fianco. E poi c’è Sabina, bella, irriverente ed anaffettiva. E Franz, il sognatore Franz che combatte le sue battaglie rischiando anche la vita in nome di un sentimento ormai solo idealizzato. E Karenin, il fedele cane di Teresa e Tomàs, con i suoi rituali e la sua presenza costante e silenziosa. Sono loro i principali protagonisti di questa storia e l’autore è quello che definiremmo un narratore onnisciente che racconta fatti, pensieri, sensazioni dei protagonisti come se vedesse dentro la loro mente. Ma infondo le vicende di questi uomini e donne sono funzionali per raccontarci ciò che è sullo sfondo, l’occupazione, la coartazione del pensiero, il rovesciamento delle vite e delle relazioni. Ciò che Kundera, in fin dei conti, racconta è l’eterna lotta tra l’anima e il corpo, tra volontà e opportunità, tra ciò che si pensa e ciò che si deve dire o fare.

E lo fa con sorprendente distacco alternato a grande partecipazione emotiva, con una prosa chiara, nonostante i molti richiami filosofici e letterari utili a spiegare ancor meglio i concetti espressi, se mai ce ne fosse bisogno.

Ed ora le considerazioni personali. Mi è piaciuto questo libro? Sì, indubbiamente sì. Non è un romanzo facile, sia per lo stile non sempre immediato, sia per la forza dei concetti trattati, ma vale di certo la pena leggerlo. Mi sento di dare piena ragione a chi annovera questo libro tra i classici e gli hever green: credo che tutti dovrebbero leggerlo almeno una volta nella vita e fermarsi a riflettere sui numerosi spunti che ci regala. Consigliato dunque? Sì, assolutamente sì.

 

Opera recensita: “l’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera

Editore: Adelphi, 1984

Genere: narrativa internazionale

Ambientazione: Boemia (Repubblica Ceca)

Pagine: 318

Prezzo: 22 €

Consigliato: sì.

Consigli correlati: il film omonimo tratto dal romanzo.

 

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