Sinossi:
Protetto da un titolo enigmatico, che si imprime nella memoria come una
frase musicale, questo romanzo obbedisce fedelmente al precetto di Hermann
Broch: «Scoprire ciò che solo un romanzo permette di scoprire». Questa scoperta
romanzesca non si limita all’evocazione di alcuni personaggi e delle loro
complicate storie d’amore, anche se qui Tomáš, Teresa, Sabina, Franz esistono
per noi subito, dopo pochi tocchi, con una concretezza irriducibile e quasi
dolorosa. Dare vita a un personaggio significa per Kundera «andare sino in
fondo a certe situazioni, a certi motivi, magari a certe parole, che sono la
materia stessa di cui è fatto». Entra allora in scena un ulteriore personaggio:
l’autore. Il suo volto è in ombra, al centro del quadrilatero amoroso formato dai
protagonisti del romanzo: e quei quattro vertici cambiano continuamente le loro
posizioni intorno a lui, allontanati e riuniti dal caso e dalle persecuzioni
della storia, oscillanti fra un libertinismo freddo e quella specie di
compassione che è «la capacità massima di immaginazione affettiva, l’arte della
telepatia, delle emozioni». All’interno di quel quadrilatero si intreccia una
molteplicità di fili: un filo è un dettaglio fisiologico, un altro è una
questione metafisica, un filo è un atroce aneddoto storico, un filo è
un’immagine. Tutto è variazione, incessante esplorazione del possibile. Con
diderotiana leggerezza, Kundera riesce a schiudere, dietro i singoli fatti,
altrettante domande penetranti e le compone poi come voci polifoniche, fino a
darci una vertigine che ci riconduce alla nostra esperienza costante e muta.
Ritroviamo così certe cose che hanno invaso la nostra vita e tendono a passare
innominate dalla letteratura, schiacciata dal loro peso: la trasformazione del
mondo intero in una immensa «trappola», la cancellazione dell’esistenza come in
quelle fotografie ritoccate dove i sovietici fanno sparire le facce dei
personaggi caduti in disgrazia. Esercitato da lungo tempo a percepire nella
«Grande Marcia» verso l’avvenire la più beffarda delle illusioni, Kundera ha
saputo mantenere intatto il pathos di ciò che, intessuto di innumerevoli
ritorni come ogni amore torturante, è pronto però ad apparire un’unica volta e
a sparire, quasi non fosse mai esistito.
Questo libro era nella mia wishlist da molto, molto tempo ed
ora che l’ho finalmente terminato non so come cominciare la mia recensione: le
cose da dire sarebbero tante, ma ho paura di cadere nel banale e dire meno di
quanto vorrei.
Tanto per cominciare siamo a Praga, in quella che oggi
conosciamo come Repubblica Ceca, ma che al tempo della storia era ancora la
Boemia. L’occupazione sovietica è un’ombra pressante per le strade della città
e nelle vite dei suoi abitanti. Microfoni e cineprese registrano le loro
conversazioni che vengono ascoltate dalla polizia segreta e talvolta trasmesse
in radio. E’ in questo clima di terrore appena velato che nasce e cresce la
storia di Tomàs e Teresa, colonna portante di questo romanzo così particolare.
E’ dall’incontro di queste due anime che, con tono dapprima
distaccato e via via sempre più partecipe, Kundera comincia il suo racconto
crudelmente concreto.
Lei è una ragazza di umili origini, costretta in una casa ed
in una famiglia asfissianti, dove il concetto di privacy è sconosciuto; lui è
un chirurgo importante e stimato da tutti, un uomo che ha paura di legarsi ad
una donna, che ama fare l’amore, ma non dormire con qualcuno, un traditore
inguaribile ed impenitente. Ma stranamente con Teresa c’è qualcosa di diverso,
di più profondo, può dormire con lei, può farci l’amore, può anche vivere la
sua vita al suo fianco. E poi c’è Sabina, bella, irriverente ed anaffettiva. E
Franz, il sognatore Franz che combatte le sue battaglie rischiando anche la
vita in nome di un sentimento ormai solo idealizzato. E Karenin, il fedele cane
di Teresa e Tomàs, con i suoi rituali e la sua presenza costante e silenziosa.
Sono loro i principali protagonisti di questa storia e l’autore è quello che
definiremmo un narratore onnisciente che racconta fatti, pensieri, sensazioni
dei protagonisti come se vedesse dentro la loro mente. Ma infondo le vicende di
questi uomini e donne sono funzionali per raccontarci ciò che è sullo sfondo, l’occupazione,
la coartazione del pensiero, il rovesciamento delle vite e delle relazioni. Ciò
che Kundera, in fin dei conti, racconta è l’eterna lotta tra l’anima e il
corpo, tra volontà e opportunità, tra ciò che si pensa e ciò che si deve dire o
fare.
E lo fa con sorprendente distacco alternato a grande
partecipazione emotiva, con una prosa chiara, nonostante i molti richiami filosofici
e letterari utili a spiegare ancor meglio i concetti espressi, se mai ce ne
fosse bisogno.
Ed ora le considerazioni personali. Mi è piaciuto questo
libro? Sì, indubbiamente sì. Non è un romanzo facile, sia per lo stile non
sempre immediato, sia per la forza dei concetti trattati, ma vale di certo la
pena leggerlo. Mi sento di dare piena ragione a chi annovera questo libro tra i
classici e gli hever green: credo che tutti dovrebbero leggerlo almeno una
volta nella vita e fermarsi a riflettere sui numerosi spunti che ci regala.
Consigliato dunque? Sì, assolutamente sì.
Opera recensita: “l’insostenibile leggerezza dell’essere” di
Milan Kundera
Editore: Adelphi, 1984
Genere: narrativa internazionale
Ambientazione: Boemia (Repubblica Ceca)
Pagine: 318
Prezzo: 22 €
Consigliato: sì.
Consigli correlati: il film omonimo tratto dal romanzo.
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