Sinossi:
Premio Campiello 2010. Perché
Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che a Soreni
si fa fatica a comprendere. La vecchia e la bambina camminano per le strade del
paese seguite da uno strascico di commenti malevoli, eppure è così semplice:
Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, la farà crescere e ne farà la sua erede,
chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne
bisogno. Quarta figlia femmina di madre vedova, Maria è abituata a pensarsi,
lei per prima, come "l'ultima". Per questo non finiscono di
sorprenderla il rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le
ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra
desiderare niente al posto suo. "Tutt'a un tratto era come se fosse stato
sempre così, anima e fili'e anima, un modo meno colpevole di essere madre e
figlia". Eppure c'è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi
silenzi lunghi, c'è un'aura misteriosa che l'accompagna, insieme a quell'ombra
di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne
che Maria intercetta ma non capisce, e una sapienza quasi millenaria riguardo
alle cose della vita e della morte. Quello che tutti sanno e che Maria non
immagina, è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce
i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case
per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale
dell'accabadora, l'ultima madre.
Breve, intenso ed appassionante. In poco più di 160 pagine
Michela Murgia ci racconta tradizioni millenarie che sono parte di una comunità,
di un popolo, ma che scavando non troppo a fondo, potremmo ritrovare anche nel
nostro passato prossimo. Sono le tradizioni legate alla vita, al suo inizio, ma
soprattutto alla sua fine; sono storie fatte di scialli neri, dolore e
conforto, di saperi antichi e credenze popolari ancora sorprendentemente vive. Siamo
a Soreni, piccolo paese della Sardegna, nel secondo dopoguerra. Qui vivono
Maria Listru e Tzia Bonaria Urrai. Maria è la quarta figlia della vedova Anna
Teresa Listru che considera la bimba un errore dopo tre cose giuste, una bocca
in più da sfamare. Bonaria, invece, è una vedova senza figli che è ben lieta di
prendere con sé quella ragazzina che ha sorpreso a rubare delle ciliegie in un
negozio e che nonostante il gesto si mostra serena ed innocente. Maria,
abituata a non essere considerata altro che la quarta o l’ultima, fa presto ad
affezionarsi all’austera Tzia Bonaria che dimostra di badare a lei, tiene
moltissimo alla sua istruzione e la considera il suo primo pensiero. Maria pensa
che Bonaria faccia la sarta e questo è vero di giorno, ma di notte, a volte,
qualcuno bussa alla porta e la donna esce in tutta fretta senza dare
spiegazioni. Maria non sa che Bonaria è l’Accabadora, l’ultima madre, colei che
aiuta chi, allo stremo della sofferenza, vuole andarsene da questo mondo senza
dolore. Non è un’assassina priva di scrupoli, ma una donna provata dalla vita
che, a suo modo, aiuta gli altri e fa ciò che deve essere fatto. Tutti a Soreni
sanno chi è e cosa fa ed il suo passaggio suscita timore e rispetto. Donna di
poche parole, ma di molto sapere, Bonaria trasmette tutto ciò che sa alla sua
fille anima tranne il suo compito segreto e quando, per un tragico caso del
destino, la ragazza lo scopre fra le due donne si apre una frattura apparente
che sa di tradimento e di cose non dette. Maria parte per il continente, ma poi
torna per ripagare, nel momento del bisogno, il suo debito di riconoscenza a
quella donna che non ha mai chiamato mamma, ma che lo è molto più di chi l’ha
generata. La storia di Maria e di Bonaria può sembrare lontana ed incredibile,
ma non lo è per niente: qualcuno potrebbe pensare che queste credenze popolari
siano morte e sepolte nel passato, invece vivono nel retaggio culturale dei piccoli
comuni italiani in cui ci si conosce tutti, in cui l’informazione che conta si
fa al bar o sulla soglia delle case al
crepuscolo.
I temi chiave di questo romanzo sono la maternità, la fiducia
e la scelta. Come si legge in apertura del libro, Maria è figlia di due madri,
di due donne, della povertà dell’una e della sterilità dell’altra. Ma si può
essere figlia di due madri? Ed è più degna, in fin dei conti, di essere
chiamata mamma colei che ci ha messi al mondo per poi abbandonarci al nostro
destino, salvo poi richiamarci a sé nel momento del bisogno rivendicando un
diritto di nascita misto ad orgoglio e possessività? O colei il cui ventre è
sterile, ma che ci accoglie, veglia il nostro sonno nel buio, ci nutre ed
educa? E poi c’è l’altro grande interrogativo, quello che riguarda la scelta:
può l’uomo scegliere quando e come porre fine alla sua vita? Può l’uomo sostituirsi
a Dio stabilendo quando far cessare la sofferenza? Fino a che punto è umano
soffrire?
Michela Murgia ci racconta questa storia affascinante con
uno stile fluido e con una scrittura insieme intimista ed evocativa: intimista perché
indaga con tatto e delicatezza i sentimenti ed i fragili equilibri privati di
una comunità; evocativa perché con parole scelte con cura descrive abilmente
sensazioni, odori, suoni, rendendoli visibili a chi legge. Tutto ciò rende
questo libro un piccolo album dei ricordi da custodire con cura, perché nulla
vada dimenticato o perso nella frenesia dell’oggi. Lettura consigliatissima.
Opera recensita: “Accabadora” di Michela Murgia
Editore: Einaudi, supercoralli, 2009
Genere: narrativa italiana
Ambientazione: Sardegna, Torino
Pagine: 166
Prezzo: 18€ (cartaceo), 6,99€ (ebook)
Consigliato: sì.
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