simposio lettori copertina

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lunedì 31 agosto 2020

RECENSIONE: H. G. WELLS - NEL PAESE DEI CIECHI


Sinossi:
Sperduto nelle Ande, Nuñez viene accolto da una comunità i cui membri sono tutti ciechi. Confuso dalla vita laboriosa e dai sensi finissimi dei suoi ospiti, dovrà destreggiarsi fra il proprio senso di superiorità e la loro remota saggezza: anche perché i ciechi si sono prefissi di guarirlo a tutti i costi dalla sua inspiegabile, perversa ossessione per la vista.

Commento:
Nel paese dei ciechi è un raccontino di appena sessanta pagine su cui si potrebbe stare a parlare per delle ore, tanti sono gli spunti, le suggestioni, le esattezze e le imprecisioni sui ciechi che ci regala. Pubblicato per la prima volta ad inizio Novecento, Nel paese dei ciechi (o Il paese dei ciechi secondo il titolo originario), risente molto delle conoscenze scientifiche e della cultura dell'epoca: Wells era egli stesso uno scienziato evoluzionista e le convinzioni – oggi ampiamente superate - che negli anni in cui scriveva imputavano l'insorgere della cecità a germi o imperfezioni genetiche permeano il racconto.
Nuñez, un viaggiatore colombiano al soldo degli inglesi, in seguito ad un incidente precipita in una valle luminosa e verdeggiante in cui scorge casupole dalla forma e dai colori alquanto strani; scorgendo l'ordine, la singolare geometria e la totale assenza di asperità nel terreno, finalmente egli comprende di essere giunto nel leggendario Paese dei ciechi di cui si favoleggia senza che nessuno l'abbia effettivamente visto da decenni se non secoli. Egli è giunto, effettivamente, in una valle circondata da monti e rocce, i cui abitanti da quindici generazioni sono afflitti da un morbo che li rende completamente ciechi; nessuno di loro ha mai visto la luce, anzi, nessuno di loro ha la minima idea di cosa sia la vista, né tantomeno che ci sia un altro mondo oltre le rocce che racchiudono la loro valle conosciuta e familiare. Così, quando Nuñez con la sua superiorità, i sogghigni, la spocchia, il tono saccente e vagamente professorale da vedente avvantaggiato e più colto degli stolti ciechi, giunge a portare la buona novella della vista e a parlare di luna, stelle, sole, cielo, Bogotà, mondo, città… quelli lo considerano un idiota, appena nato e perciò imperfetto, malato, pazzo. Decisamente avvincente, ironica, sagace l'avventura di quest'uomo che si inoltra con fare da sapiente in qualcosa che non conosce. Il finale dà da pensare, ma nel complesso il racconto getta interrogativi e apre a riflessioni molto, molto interessanti. Un racconto breve che merita più riletture e può dare la stura a molte discussioni.

Opera recensita: "Nel paese dei ciechi" di H. G. Wells
Editore: Adelphi, 2008
Genere: racconto di fantascienza
Ambientazione: Ande
Pagine: 60
Prezzo: 7,00 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8,5.


sabato 29 agosto 2020

RECENSIONE: ILARIA TUTI - LA RAGAZZA DAGLI OCCHI DI CARTA


Sinossi:
Un uomo vaga sul ciglio di una strada in montagna, i suoi abiti sono sporchi di sangue, nel suo zaino viene trovata una mano mozzata con un anello e la foto di un volto di ragazza con due ellissi di carta sugli occhi. Teresa Battaglia, commissario di polizia a Udine, si butta anima e corpo sul caso. Ma sono troppe le cose che non quadrano: un uomo in stato confusionale da cui non riescono a sapere nulla e lo spettro della pazzia in un caso di omicidio. E se, invece, la ragazza non fosse ancora morta e ci fosse tempo per salvarla? Ma il tempo, a Teresa, divorata dal diabete e da una malattia che le rosicchia giorno dopo giorno frammenti sempre più ampi di memoria, è l'unica cosa che manca.

Commento:
La ragazza dagli occhi di carta è un racconto breve che potrebbe essere considerato un prequel della serie della commissaria Teresa Battaglia, se non fosse per un'incongruenza nella figura di Marini. Ritroviamo, se pur in forma ridotta, tutti i pregi dei romanzi di Ilaria Tuti: la capacità descrittiva, la narrazione ricca e fluente, lo stile elegante, le trame appassionanti. Si legge in un soffio, consigliato.

Opera recensita: "La ragazza dagli occhi di carta" di Ilaria Tuti
Editore: Nero Press, 2015
Genere: racconto giallo
Ambientazione: Friuli
Pagine: 48
Consigliato: sì
Voto personale: 8.


RECENSIONE: NAWAL AL-SA'DAWI - L'AMORE AI TEMPI DEL PETROLIO


Sinossi:
In un paese africano senza nome una donna è partita e non è mai più tornata. Era un’archeologa e aveva una passione per la ricerca delle mummie, non indossava il velo, amava il suo lavoro, era emancipata. Perché è sparita? Qualcuno l’ha costretta o è stata una libera scelta? È davvero scomparsa? L’amore ai tempi del petrolio di Nawal al- Sa‘dawi, uscito in Egitto nel 2011, è un giallo che racconta la condizione femminile non solo nei paesi autoritari ma in ogni società. Forse proprio questo ha spinto l’autrice a non utilizzare nomi, ma solo categorie – donne e uomini – affinché l’immedesimazione potesse essere totale. Donne sottomesse al lavoro, donne che lavorano anche più degli uomini ma senza uno stipendio, che viene invece pagato all’uomo con cui condividono il letto e la casa, a cui sono costrette a dire sempre di sì. Donne omologate. Donne dominate socialmente, economicamente e culturalmente. In questa terra di tirannia le relazioni sociali sono influenzate dal petrolio e dalla sua potenza, che riduce l’intero paese in schiavitù, dipendente da una forza esterna onnipresente. Critica feroce a Mubarak allora saldamente al potere e al suo governo fortemente condizionato da ingerenze esterne, duro attacco alle donne e alla loro paura di andare contro quel che ritengono un destino già scritto e immodificabile, questo romanzo è un’invettiva contro chi tenta di cancellare la storia, non a caso le statue che rappresentano divinità femminili vengono trasformate in divinità maschili… Ma è anche un viaggio onirico: l’archeologa alterna momenti di veglia al sogno, proprio per non essere assorbita dalla vischiosa e torbida monarchia del petrolio, e il lettore la segue incantato rifugiandosi nel suo mondo immaginario fatto di infiniti tentativi di fuga.

Commento:
L'amore ai tempi del petrolio è un libro che dipinge un quadro a tinte foschissime, nero petrolio, della condizione femminile non solo in Egitto, ma in ogni società governata dal capitalismo di cui il petrolio è il simbolo. È un libro assurdo, folle, visionario, surreale, onirico, irriverente, sfacciato. E lo è volutamente: l'autrice, la psichiatra simbolo del femminismo arabo Nawal Al-Sa'dawi, attinge alla sua vita e alla sua esperienza di donna e professionista egiziana per raccontare la vita di una donna emancipata che scompare in una vacanza da cui non fa più ritorno. All'inizio della storia pare che questa vacanza sia stata da lei voluta, cercata, auspicata, imposta, ma ben presto non si è più certi che sia stata una sua scelta e che non vi sia stata, invece, obbligata. A dire il vero, non si è più sicuri di niente: la donna, che volutamente non ha un nome come non ce l'ha nessuno delle figure che ritroviamo in queste pagine, era partita alla ricerca delle dee, con il suo scalpello da archeologa, la sua borsa e il suo volto scoperto. Si ritroverà prigioniera su un'isola-giacimento di petrolio, con un uomo come carceriere, padrone, amante, con altre donne prima ostili, poi solidali. Dal momento in cui incontra l'uomo, a noi lettori non è dato capire più nulla del corso della vita della donna: i momenti presenti si intrecciano e si confondono con i sogni, i flash-back, le visioni, i desideri in un guazzabuglio di immagini sempre più cupe, sempre più nere. Su tutto domina una costante: la necessità di fuggire, fuggire da lì, dalla prigionia, dalla tirannia dell'azienda che obbliga le donne a trasportare sul capo i barili di petrolio incandescenti; ma anche fuggire dalla vita di prima, dal matrimonio, dall'egemonia del capo del dipartimento… In definitiva, ciò che emerge è proprio l'assoluto bisogno di libertà della donna, di tutte le donne, che queste possono raggiungere solo coalizzandosi, aiutandosi, unendosi nella ribellione. Pagine difficili da seguire, da leggere, da decifrare, pagine tuttavia importanti perché nascondono un messaggio forte che emerge dal marasma delle scene della storia: la donna non esiste in funzione dell'uomo, ma è un essere pensante, libero e unico, a dispetto delle diagnosi, delle etichette, delle gabbie e delle catene. Ve lo consiglio? Non lo so, fate voi… non credo possa piacere a tutti, ma di certo è un'esperienza di lettura importante: Nawal Al-Sa'dawi trova comunque il modo di farci arrivare la sua voce, forte, chiara e impossibile da ignorare.

Opera recensita: "L'amore ai tempi del petrolio" di Nawal Al-Sa'dawi
Editore: Fandango, 2020
Genere: narrativa straniera
Ambientazione: Africa
Pagine: 176
Prezzo: 17,00 €
Consigliato: sì/no
Voto personale: 7.


venerdì 28 agosto 2020

RECENSIONE: GIANPIERO BENEDETTO - IL CUSTODE DEL PONTE SUL BASENTO


Sinossi:
Il custode del ponte sul Basento è una favola moderna che racconta la storia di Iumara, vittima di un incantesimo, di un legame fortissimo con un fiume e di un ponte costruito negli anni 70, che per la sua forma particolare e la sua bellezza, è ancora oggi apprezzato in tutto il mondo grazie alla sua unicità. Sullo sfondo la Lucania e una città, Potenza, con le sue contraddizioni e con la voglia di alcuni di amarla e valorizzarla senza condizioni. Un quadro armonico, in un crescendo emozionale intenso. Un viaggio fantastico di storie vere, leggende, amori e colpi di scena.

Commento:
Favola moderna, racconto popolare, Il custode del ponte sul Basento racconta una storia suggestiva, intensa, vissuta. Una storia che sa di sacrifici, rinunce, cadute e ripartenze forzate, dure, faticose, ma necessarie. La storia di un popolo, quello lucano, e di una città, Potenza, che prostrato dalle disgrazie ha sempre saputo rinascere, abbeverandosi a quel fiume, il Basento, il più lungo del Meridione, che ha incanalato la sua energia, il suo impeto, trasformandoli in forza. Il protagonista è, quindi, il fiume, testimone delle tante traversie degli uomini, delle liti, degli amori finiti, di quelli appena nati e degli incidenti, come quello occorso a Iumara. Al tempo in cui rischiò la vita, Iumara era un ragazzino normale, vispo, ma in fondo timido; un gruppo di suoi coetanei credendosi più in gamba degli altri lo bullizzavano, così, per rispondere ad una provocazione, cadde nel fiume. Non ci sarebbe stata nessuna speranza per lui se una donna mai vista prima non si fosse offerta di salvarlo: era la Signora della sorgente del Basento e il prezzo chiesto per salvare la vita di Iumara era alto. Il ragazzo sarebbe diventato parte del fiume, vincolato ad esso in tutto, fisicamente e non solo. Da quel momento la vita di Iumara, salvata per un soffio, cambiò: egli divenne in grado di controllare l'acqua e di difendere il fiume da chiunque volesse danneggiarlo. Ma la sua strada sarà lunga e tante avventure gli occorreranno, tutte legate a doppio filo con la sua città. Quando Iumara soffriva, anche il fiume soffriva e viceversa, quando il ragazzo gioiva anche il fiume risplendeva… e il nostro Iumara ebbe sia motivi per soffrire che per gioire. Leggere la sua storia vuol dire entrare in connessione con una città, un territorio, un popolo e la sua anima, raccontata da chi la conosce, la vive e ne è a sua volta permeato. In questo secondo romanzo la prosa di Gianpiero Benedetto appare più consapevole, più accorata. Una buona lettura per una bella storia.

Opera recensita: "Il custode del ponte sul Basento" di Gianpiero Benedetto
Editore: Eretica edizioni, 2020
Genere: narrativa italiana
Ambientazione: Potenza
Pagine: 120
Prezzo: 13,00 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8,5.


RECENSIONE: JORGE AMADO - GABRIELLA, GAROFANO E CANNELLA


Sinossi:
Profuma di garofano e ha la pelle color della cannella la bella mulatta che Nacib vede un giorno al mercato degli schiavi. Incantato dalla sua prorompente sensualità, l'arabo Nacib l'assume come cuoca, rendendola ben presto regina della sua vasta casa. Ma Gabriella, selvatica e ingenua, non sa distinguere, perché l'amore è per lei un fatto spontaneo: ama Nacib, ma si dona anche ad altri, senza malizia alcuna... Jorge Amado si serve del suo sguardo per raccontare i personaggi, i colori, i profumi dello Stato di Bahia all'inizio del Novecento: talmente bello e luminoso da sembrare un paradiso terrestre.

Commento:
I libri di Jorge Amado sono proprio come le notti bahiane che riviviamo fra le sue righe: infinite, sfiancanti, esaltanti, con quella vena di malinconia e di perdita quando spunta il primo bagliore dell'alba ed è il momento di rientrare a casa. Proprio così sono i suoi libri: un bailamme di personaggi, luoghi, situazioni, odori, sapori, colori, suoni, una profusione di emozioni che travolge i sensi e sfianca il lettore che ne rimane invariabilmente intrappolato ed ammaliato. Anche Gabriella, garofano e cannella non fa eccezione: è un libro densissimo di vita, di storie, di sensualità che se all'inizio spiazza e disorienta, alla fine lascia piacevolmente sfiniti per il gran correre e il gran vivere e tristi per l'imminente e inevitabile ritorno alla realtà fuori dalle pagine. E la protagonista, la bellissima e fenomenale cuoca mulatta Gabriella è solo una parte di questa invasione dei sensi: protagonista indiscusso, come in tutti i romanzi di Amado, è il Brasile, la società brasiliana e in questo caso quella della regione del cacao e della città di Ilhéus nel 1925. Amado, da bravo descrittore dell'anima di una città, prende come centro del romanzo il bar Vesuvio, il più frequentato ad ogni ora del giorno e della notte, gestito dall'arabo Nacib. È qui, sotto lo sguardo vigile e l'orecchio attento del gestore, che confluiscono le due grandi storie raccontate in queste pagine: quella di una città che lottò per il progresso, per liberarsi dall'ipocrisia e dalle usanze violente e sanguinarie del governo dei fazendeiros (i colonnelli del cacao), e quella di una giovane donna, una bellissima, ingenua bambina nata per i fornelli e giunta in città come migrante dal deserto del Sertao, assunta come cuoca da un arabo bello e triste e portatrice di amore e gioia in chiunque la incontrasse. La città, ovviamente, è Ilhéus, l'arabo è proprio Nacib e la giovane cuoca è, l'avrete capito, la nostra Gabriella. Cosa dire di più senza far torto alla storia? Niente, è una storia da leggere, da scoprire, in cui immergersi senza pensare, da cui lasciarsi travolgere ed ammaliare, come una passione color della cannella, come una cucina dai sapori che stordiscono, come un profumo che intontisce, magari di garofano. Questo libro, inspiegabilmente, mi è piaciuto leggermente meno di Dona Flor e i suoi due mariti, il primo di Amado che lessi, che rimane il mio preferito e con cui pure ci sono molti punti in comune. Tuttavia lo consiglio davvero a chi ami quest'autore, il Brasile e la letteratura latinoamericana. Preparatevi, però, a lasciarvi travolgere senza opporre resistenza.


Opera recensita: "Gabriella, garofano e cannella" di Jorge Amado
Editore: Mondadori, prima ed. 1958
Genere: letteratura sudamericana
Ambientazione: Brasile
Pagine: 504
Prezzo: 12,00 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8.


mercoledì 26 agosto 2020

RECENSIONE: CRISTINA CASSAR SCALIA, GIANCARLO DE CATALDO, MAURIZIO DE GIOVANNI - TRE PASSI PER UN DELITTO


Sinossi:
Una giovane bellissima, che lavora nel mondo dell'arte, viene uccisa nel proprio appartamento a Roma. Tre personaggi coinvolti per ragioni diverse nell'omicidio forniscono la loro interpretazione dei fatti. Chi nasconde la verità. Chi la manipola. Chi sembra non curarsene. Il commissario Davide Brandi è un poliziotto molto abile, e molto ambizioso. È lui che conduce le indagini. A dargli la parola è Giancarlo De Cataldo. Marco Valerio Guerra è l'amante della vittima. Un uomo d'affari ricchissimo, potente, odiato. A dargli la parola è Maurizio De Giovanni. Anna Carla Santucci è la moglie di Guerra. Scoprire il tradimento del marito non l'ha stupita affatto. A darle la parola è Cristina Cassar Scalia. Le loro versioni non concordano. Ma tutte rappresentano un piccolo passo per arrivare alla soluzione del caso.

Commento:
Giada è bella, giovane, colta; Giada è determinata, spregiudicata, provocante; Giada è le due anime di un sorriso: solare e sorridente, implacabile e spietato. Giada ama il bello ed ottiene sempre ciò che vuole; Giada non la puoi dominare, controllare, costringere: se sta con te è perché lo vuole, se ti lascia è perché ha trovato di meglio. Giada non fa sconti, deve raggiungere i suoi obiettivi, deve emergere dal degrado a qualunque costo. Giada è morta, colpita da un pezzo d'arte che amava, Giada qualcuno l'ha uccisa e c'è un problema: sembra fin troppo facile capire chi. Il suo punto di vista è l'unico che manca in questa triade di voci così diverse, ma coordinate ed assortite, eppure lei è la più presente di tutti, pervade ogni pagina di questa storia torbida tanto da saturare l'aria con la sua irruenza ingombrante. Il commissario Brandi, che coordina le indagini per la sua morte, ne è irretito; Marco Valerio Guerra, il suo amante, ne è ossessionato; persino Anna Carla, colei che meno di tutti dovrebbe preoccuparsene, patisce lo spostamento d'aria della sua presenza. Ma chi l'ha uccisa, davvero, Giada? La razionalità suggerirebbe una pista ben chiara, ma la verità sta negli anfratti della mente, nel regno delle sensazioni, là dove governa l'istinto, dove la ragione non c'entra più. Tre scrittori bravissimi, tre penne riconoscibilissime, danno voce a tre personaggi diversi eppure perfettamente incastrati fra loro… e l'incastro perfetto è dato proprio da quella nota stonata, da quel dettaglio che spariglia le carte spezzando l'incantesimo e riportando tutto alla realtà. Una realtà di sacrifici, rinunce, compromessi, controllo, equilibrio, scalate ardue per raggiungere posti da cui discendere sarebbe fatale. Tre passi per un delitto è un giallo raffinato ed atipico, un libro diverso che ci invita a guardare oltre, là dove l'occhio per natura non si soffermerebbe. Vale la pena di leggerlo? Certo che sì.

Opera recensita: "Tre passi per un delitto" di Cristina Cassar Scalia, Giancarlo De Cataldo e Maurizio De Giovanni
Editore: Einaudi, 2020
Genere: giallo
Ambientazione: Roma
Pagine: 200
Prezzo: 17,00 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8,5.


martedì 25 agosto 2020

RECENSIONE: JOHN CONNOLLY - TUTTO CIò CHE MUORE (CHARLIE PARKER 01)


Sinossi:
Charlie Parker, detto Bird, lavora come detective privato a New York dopo aver lasciato la polizia in seguito a una terribile esperienza: l'assassinio della giovane moglie e della loro bambina di tre anni. Il caso di cui si occupa, la sparizione di una coppia di ragazzi, lo porta a contatto con un mondo di orrori e violenze inaudite. E, soprattutto, lo porta a individuare la figura di un sadico serial killer, che strappa la pelle del viso alle sue vittime dopo averle mutilate.

Commento:
Cadaveri, cadaveri e ancora cadaveri. In nessuno dei molti thriller che ho letto finora credo di aver mai visto il numero di morti che ho incontrato in questo primo capitolo della corposa serie di Charlie Bird Parker. E il particolare sorprendente – ma neanche tanto – è che… la cosa non mi è dispiaciuta, nel senso che il romanzo è, nella sua folle implausibilità, del tutto plausibile. Mi spiego meglio, è necessario: Charlie "Bird" Parker era uno sbirro di New York, uno sbirro alcolista con una figlia di tre anni, Jennifer, e una moglie, Susan, con cui i rapporti si erano dolorosamente raffreddati proprio a causa della bottiglia. Charlie Parker era, dunque, uno sbirro, poi una sera, rientrando a casa dal bar, ha trovato in casa la morte: Susan e Jennifer erano state barbaramente uccise, scorticate, accecate e mutilate. Da quel giorno Bird non ha mai più toccato un sorso d'alcool, non è più stato un poliziotto e, soprattutto, non ha smesso di cercare l'assassino. Mesi dopo l'omicidio, una duplice traccia mette in moto Bird: da un lato la scomparsa di due ragazzi lo conduce in Virginia e poi di nuovo a New York, alle prese con un orrore indicibile le cui vittime, da trent'anni, sono dei bambini; dall'altro c'è una vecchia, Tante Marie, a New Orleans, che ha avuto la visione di una ragazza dispersa nella palude, morta ricevendo lo stesso macabro trattamento di Susan e Jennifer. Il killer, ora lo sa, è il Viaggiatore e non ha intenzione di fermarsi. Passando attraverso vari stadi di orrore e di violenza, l'ormai investigatore privato Charlie Parker, accompagnato da pochi amici e molti nemici, si mette sulle tracce di questo assassino che sembra aver superato ogni forma di razionalità, ogni parvenza di legame con la ragione e che sembra avere una macabra predilezione per l'arte, oltre che elevate conoscenze mediche. Un primo incontro con un personaggio assolutamente interessante, un investigatore che non ha paura di ammettere le proprie debolezze, che non ha paura di gettarsi nella mischia e di sporcarsi le mani, che non ha paura di guardare in faccia il male per combatterlo, anche se questo significa rimanerne permeato. Credo che leggerò ancora di lui, tuttavia devo avvisarvi: questa non è una lettura per tutti. Se non reggete l'orrore, il sangue, la morte violenta, questo libro non fa per voi. Se cercate per forza una spiegazione razionale alla follia umana, questo libro non fa per voi, perché a certe cose davvero, non si può trovare spiegazione: bisogna solo affrontarle, continuare a leggerle, perché potrebbe accadere, purtroppo, che qualcosa di simile accada nella realtà… quindi, meglio essere preparati.

Opera recensita: "Tutto ciò che muore" di John Connolly
Editore: Rizzoli, 2000 – Time Crime, 2015
Genere: hard-boiled, seriale
Ambientazione: Stati Uniti
Pagine: 464
Consigliato: sì
Voto personale: 8,5.


sabato 22 agosto 2020

RECENSIONE: ROBERTO ALAJMO - L'ARTE DI ANNACARSI


Sinossi:
Annacare/annacarsi è in dialetto siciliano un verbo insidioso, difficilmente traducibile in italiano. Quel che più si avvicina è cullare/cullarsi, ma non è proprio la stessa cosa. L'arte di annacarsi prevede il muoversi il massimo per spostarsi il minimo. Una immagine che descrive bene lo spirito dell'isola e più ancora la disposizione d'animo dei siciliani tessuta di diffidenza. Ogni viaggio in Sicilia, anche quello intrapreso in questo libro, diventa una specie di danza immobile attorno alla geografia e alla filosofia, alla storia, al folklore e alla gastronomia, scoprendo che fra le diverse discipline esistono continui rimandi a una trama inestricabile. "Pur restando immobile, l'Isola si muove. Non è uno di quei posti dove si va a cercare la conferma delle proprie conoscenze. È invece un teatro dove le cose succedono da un momento all'altro. È un susseguirsi di scatti prolungati, pause per rifiatare e ancora fughe in avanti". Come l'Isola, Alajmo procede a zig-zag in un itinerario non lineare, senza vincoli di percorso né di tempo, da un capo all'altro, sulla base di pure suggestioni, guidato dalla bellezza, accompagnato da un lucido pessimismo. Come un atto d'amore che non si nasconde nessuna vergogna dell'oggetto amato: capita di innamorarsi di una canaglia. E anche se lo sai, che puoi farci?

Commento:
Ho deciso di leggere questo libro perché amo la Sicilia, è una di quelle terre che mi attraggono da sempre, di cui mi affascina tutto, i lati buoni e quelli meno buoni, le bellezze e le contraddizioni. Mi aspettavo, da queste pagine, un viaggio attraverso questa terra che mi portasse a conoscerne meglio le differenze geofisiche, ma soprattutto di attitudine, di disposizione d'animo, di carattere degli abitanti. Non ho trovato esattamente quel che cercavo, mi sono rimasti dei dubbi, ma non sono per niente rimasta delusa ed anzi, posso dire di aver avuto un punto di vista valido e completo su questa terra così sfaccettata. Il non aver soddisfatto completamentele mie aspettative (pure molto specifiche) è positivo perché mi spingerà a leggere altro, a cercare ancora, e così a conoscere sempre meglio "l'oggetto amato", come scrive la quarta di copertina. Di per sé, questo libro è un ottimo punto di partenza per questo viaggio ideale in Sicilia, per questa danza immobile in una terra mobile, in continuo cambiamento eppure apparentemente sempre uguale a se stessa. Ho ritrovato, qui, la storia, i profumi, l'arte, la bellezza, la vivacità di un popolo ancora tutto da scoprire.

Opera recensita: "L'arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia" di Roberto Alajmo
Editore: Laterza, 2010
Genere: viaggi
Ambientazione: Sicilia
Pagine: 274
Prezzo: 16,00 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8,5.


venerdì 21 agosto 2020

RECENSIONE: GASTON LEROUX - IL MISTERO DELLA CAMERA GIALLA


Sinossi:
Gaston Leroux... chi era costui? Alcuni Lo ricorderanno come autore de "II fantasma dell'Opera", d'altronde più conosciuto per le sue versioni teatrali e cinematografiche che per il romanzo originale. Ma c'è stato un lungo periodo, nei primi decenni del Novecento, nel quale Joseph Josephin, soprannominato Rouletabille, giovanissimo reporter di cronaca giudiziaria de "L'Epoque" e detective dilettante, protagonista della maggior parte dei romanzi di Leroux, era altrettanto famoso dei vari Mrs. Marple, Hercule Poirot, Nero Wolfe, Philo Vance e degli altri grandi eroi della letteratura poliziesca. Fernando Savater - che nella sua personale lista di thrillers preferiti include "La camera gialla" assieme a "I delitti della rue Morgue" di Edgar Allan Poe, "Il mastino dei Baskerville" di Arthur Conan Doyle, "L'assassinio di Roger Ackroyd" di Agatha Christie e "L'arciere verde" di Edgar Wallace - osserva che "i romanzi di Leroux presentano situazioni terribili, truculente o macabre, ma venate di un particolarissimo umorismo. Joseph Rouletabille viaggia tra paesi e misteri come una sorta di Tintin adulto. In particolare, la sua prima avventura la incontriamo ne "La camera gialla, che pure inaugura un sotto-genere famoso: il delitto apparentemente impossibile all'interno di una camera chiusa". A conferma del suo grande successo, dal 1919 "II mistero della camera gialla" ha conosciuto ben quattro versioni cinematografiche.

Commento:
Era da tempo che volevo leggere questo giallo della camera chiusa, sia perché è considerato tra i migliori del genere (e per chi come me sta cercando di farsi una cultura del proprio genere letterario preferito è un dovere non tralasciare le basi), sia perché le ambientazioni e le metodologie del giallo classico mi affascinano e mi incuriosiscono in modo particolare. E poi non avevo ancora letto un enigma della camera chiusa scritto da un autore francese, quindi… inutile dire che non sono rimasta delusa. Il mistero della camera gialla è veramente un giallo con la G maiuscola, permeato di mistero, logica, deduzione, ragionamento. Ma ciò che più di tutto ho apprezzato in quest'opera, al di là del complicato intrico della camera chiusa, sono stati i personaggi, tutti molto ben caratterizzati, in particolare il giovane, sveglio, acutissimo e simpaticissimo Rouletabille. Rouletabille è un diciottenne cronista del giornale l'époque che dimostra un'innata predisposizione al ragionamento logico, nonché alla soluzione di enigmi. Questo, unito all'intelligenza, alla temerarietà, alla spregiudicatezza, all'irriverenza, non solo gli permetteranno di risolvere sorprendentemente e brillantemente questo caso impedendo che venga imprigionato un innocente, ma lo rendono, a parer mio, uno dei personaggi più interessanti della letteratura gialla. Il caso di per sé è, come dicevo, intricato: Mathilde Stangerson, figlia e collaboratrice dell'illustre scienziato di fama mondiale professor Stangerson, è vittima di un tentato omicidio nella sua camera gialla nel padiglione attiguo al castello di Glandier. La camera è chiusa dall'interno, non v'è alcuna possibilità di entrare o di uscire; all'esterno, nel laboratorio comunicante, lavorano il padre della vittima, il professor Stangerson, e il domestico fidato Compare Jacques. La camera è apparentemente impenetrabile, eppure in piena notte si sente distintamente la donna gridare "all'assassino, aiuto!" e subito due colpi di rivoltella. Quando si riesce, con fatica, a sfondare la porta, l'unica traccia di vita è la signorina Stangerson agonizzante sul pavimento. Nessuna traccia dell'assassino. Il famoso ispettore della polizia parigina, Frédéric Larsan, all'uopo convocato per risolvere il caso, propenderebbe per la colpevolezza del fidanzato della giovane, Monsieur Robert Darzac e una serie di circostanze fisiche sembrerebbero effettivamente far supporre che abbia ragione… ma Rouletabille non è per niente dello stesso avviso. Egli è convinto che il "Grande Fred" stia sbagliando, stia ragionando dal senso sbagliato della ragione, quello che porta l'investigatore a farsi guidare dalle prove fisiche verso il colpevole, asservendo così il ragionamento ai "segni sensibili". Egli invece operaa al contrario: dapprima ragiona, poi verifica se le tracce concrete rientrino nel suo ragionamento o siano, invece, fuorvianti. E il tempo e la pervicacia gli daranno ragione. Complesso, intricato, affascinante, Il mistero della camera gialla è davvero un giallo istruttivo e godibile che vale la pena leggere.

Opera recensita: "Il mistero della camera gialla" di Gaston Leroux
Editore: vari, prima ed. 1908
Genere: giallo
Ambientazione: Castello di Glandier, Francia, 1892
Pagine: 270
Prezzo: 16,50 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8.


mercoledì 19 agosto 2020

RECENSIONE: GEORGES BERNANOS - DIARIO DI UN CURATO DI CAMPAGNA


Sinossi:
Il giovane parroco di Ambricourt si rivolge al suo gregge come «un povero mendicante che va di porta in porta a mano tesa senza aver animo neppure di bussare», preoccupato e stupito dalla noia, dal disamore, dall'aridità della piccola comunità a lui affidata. La sua vita quotidiana è ridotta all'essenziale, il suo corpo, goffo e magrissimo, è minato da un male incurabile: proprio questo sacerdote "vincente" su di sé e sugli altri è per Bernanos il simbolo di una religiosità autentica. Una forza e una dignità incrollabili sostengono infatti il giovane prete che, pur sperimentando dentro di sé l'angoscia del dubbio, è capace di riaccostarsi alla pienezza della fede, accettando e facendo accettare agli altri, in uno slancio d'amore, il suo destino.

Commento:
Diario di un curato di campagna è un libro difficile, complicato, uno di quelli che vanno riletti in più fasi della vita con la certezza che ad ogni lettura ricaveremo qualcosa di diverso, qualcosa di più da queste pagine. Pagine intrise di religiosità, fede, dubbio, aridità, noia, malignità, grettezza, amore; pagine da cui traspare una profonda conoscenza dell'animo umano. Il giovane curato della parrocchia di Ambricourt è diverso dagli altri preti che, con piglio cattedratico, sembrano adattarsi alla noia, al disamore, all'aridità che accomunano tutte le parrocchie. Egli crede ancora nel Dio che serve e cerca di indurre, con le parole e con le azioni, anche i suoi parrocchiani a tornare alla fede. La giovane età e questo suo essere diverso, questo suo voler indottrinare, ricondurre le pecorelle al gregge, gli attirano gli sguardi perplessi, le voci maligne, gli scherni dei fedeli e persino l'avversione di dei nobili del paese. Nonostante una salute tutt'altro che rosea, il curato compie il suo lavoro e il suo percorso di maturazione nella fede con zelo e coscenziosità, interrogandosi sul suo operato, riflettendo sulle sue giornate e sugli accadimenti della comunità. Ma se l'anima può essere guidata dall'amore di Dio, il corpo è traditore…
La lettura di questo libro, impegnativa e per nulla rilassante specie nella parte iniziale, è interessante perché consente, una volta di più, di confrontarsi con l'animo umano, le sue perversioni, l'abiezione, la meschinità, confrontate con un'anima semplice che ancora crede nella rettitudine e nella bontà.

Opera recensita: "Diario di un curato di campagna" di Georges Bernanos
Editore: Mondadori, prima ed. italiana 1946
Genere: letteratura francese
Ambientazione: Francia
Pagine: 270
Prezzo: 13,00 €
Consigliato: sì
Voto personale: 7,5.


martedì 18 agosto 2020

RECENSIONE: JOHN STEINBECK - UOMINI E TOPI


Sinossi:
George Milton si occupa da sempre con ferma dolcezza di Lennie Small, un gigante con il cuore e la mente di un bambino. Il loro progetto, mentre vagano di ranch in ranch, è trovare un posto tutto per loro a Hill Country, dove la terra costa poco: un posto piccolo, giusto qualche acro da coltivare, e poi qualche pollo, maiali, conigli. Ma le loro speranze, come "i migliori progetti predisposti da uomini e topi" (è un verso di Burns), sono destinate a sbriciolarsi. Il ritratto di un'America soffocata dalla crisi e di un'umanità gretta e gelosa nella drammatica rappresentazione di un maestro della letteratura. Scritto nel 1937 e destinato a un pubblico di uomini semplici come George e Lennie, "Uomini e topi" è una breve storia ricca di dialoghi, un piccolo gioiello di scrittura, pensato da Steinbeck per essere messo in scena in teatro e al cinema: e così è successo, sul grande schermo e a Broadway. Ma «Uomini e topi» resta prima di tutto un romanzo indimenticabile. Questa edizione propone nella nuova traduzione di Michele Mari un racconto di impegno, solitudine, speranza e perdita che resta uno dei libri più letti e più amati della letteratura mondiale. Introduzione di Luigi Sampietro.

Commento:
Uomini e topi racchiude, in poco più di cento pagine, tutti gli ideali dei più grandi romanzi di Steinbeck, quegli ideali di giustizia sociale, indipendenza, libertà, che hanno caratterizzato il pensiero dell'America del Novecento e che, a un livello più ampio, sono il sogno, la speranza, la meta della lotta di ogni uomo. George e Lennie sono due uomini semplici, due braccianti abituati alla fatica. George è piccoletto, un po' rude, ma ha un gran cuore; egli si occupa da tempo di Lennie, alto, grosso, forzuto, un bambinone non matto ma combinaguai. I due sono forti l'uno della presenza dell'altro, che li tiene vivi, sulla retta via, impedendo loro di impazzire o di perdersi. I due hanno un sogno, quello di un podere, un piccolo pezzo di terra con animali, orto, latte e formaggio, un luogo che possano chiamare "casa propria", dove restare a lavorare per se stessi se gli va e a non lavorare se non gli va. Ma un giorno Lennie combina un guaio più grosso degli altri…
Uomini e topi, pubblicato per la prima volta nel 1937 ed uscito in Italia nel 1938 con traduzione di Cesare Pavese, tratta gli stessi ideali che ritroveremo in Furore e in tanti altri romanzi di Steinbeck, ma spoglia la sua prosa di solito ricca di tutti gli orpelli, la rende scarna, essenziale, semplice, diretta, efficace, eppure meravigliosa. John Steinbeck è, è stato e resterà sempre un grande scrittore, in grado di cambiare modo di scrivere ad ogni romanzo, di adattare se stesso alla storia che vuole raccontare. Uomini e topi è, come tutti gli altri, un romanzo da leggere.

Opera recensita: "Uomini e topi" di John Steinbeck
Editore: Bompiani, prima ed. 1937
Genere: letteratura americana
Ambientazione: Stati Uniti
Pagine: 139
Prezzo: 12,00 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8,5.


RECENSIONE: ROBERT DOMES - NEBBIA IN AGOSTO


Sinossi:
Nella Germania del Terzo Reich, mentre imperversa l'occupazione nazista e milioni di persone vengono perseguitate, Ernst Lossa si chiede: Perché io? Perché proprio io? Ernst ha solo quattro anni quando, nel 1933, viene separato dalla sua famiglia di nomadi e mandato in un orfanotrofio, e poi da lì trasferito in un riformatorio. Giudicato "irrecuperabile", all'età di dodici anni viene trasferito ancora, questa volta in un manicomio. Ernst però non si arrende all'immagine di sé che vede riflessa negli sguardi degli altri. Non si sente né diverso, né sbagliato. Nonostante gli orrori nazisti non risparmino neanche i bambini, lui stringe amicizie e vede nascere il suo primo amore, lottando fino alla fine per la salvezza. Tra il 1939 e il 1945 oltre 200.000 persone furono vittime del programma di eutanasia nazista. Questa è una storia vera, per ricordare Ernst e tutti coloro che come lui hanno amato la libertà.

Commento:
Un libro splendido, commovente, semplice che racconta una storia vera, struggente, disarmante. La storia di Ernst Lossa e di tanti, troppi come lui, che pagarono con la vita la follia nazista. Quando comincia questa storia, nel 1933, Ernst è un bambino intelligente e acuto di appena quattro anni, ha due sorelline e un fratellino appena nato; si è appena trasferito in un appartamento di Augusta, in Germania, insieme alla famiglia, anche se lui avrebbe preferito continuare a vivere sul carrozzone con il quale il padre lavora e che aveva fatto da casa per tutti loro negli anni precedenti. Purtroppo non è più possibile vivere sul carrozzone perché la situazione per i Lossa si sta facendo difficile: sono Jenisch, lavorano come ambulanti, sono nomadi, fanno parte di una minoranza impropriamente accomunata agli zingari e come loro perseguitata. E proprio per questo appena trasferitisi i Lossa vengono presi di mira dal Comune, dall'ufficio minori, dai servizi sociali: approfittando del fatto che il padre è sempre girovago e che la madre è in pessime condizioni di salute, i servizi sociali separano i figli dalla donna, mandando Ernst in un orfanotrofio gestito dalle suore e le sorelle e il fratellino in un altro istituto. È da qui che comincia la peregrinazione di Ernst da un istituto a un riformatorio, poi ad un ospedale psichiatrico, poi alla sua succursale. Considerato psicopatico, asociale, irrecuperabile, soggetto non gradito, Ernst è in realtà un ragazzino sanissimo, con l'unico vizio di rubare qualsiasi cosa gli piaccia, non può farne a meno, ma per il resto è intelligentissimo, acuto, capisce bene ciò che gli succede intorno, si fa degli amici in ogni posto in cui lo trasferiscono. Ciò che Ernst proprio non capisce è perché vogliano liberarsi di lui, perché lo perseguitino, perché questo destino sia toccato proprio a lui. Questa è la storia di un bambino come tanti, capitato nella rete degli indesiderati da un sistema discrezionale che non perdonava le imperfezioni. Questa è la storia di un ragazzino che ha provato, con le sue poche forze, a ribellarsi al sistema, e che per ordine di qualcuno è morto per overdose di morfina a quattordici anni, ucciso da infermieri senza scrupoli convinti che gli scarti della società dovessero essere eliminati perché non infettassero più la razza. Ernst è uno dei tanti morti dell'Action T4, il programma di eugenetica nazista che sterminò centinaia di miliaia di bambini e ragazzi disabili, minorati, asociali, diversi per qualunque motivo. Questa è la storia di un abominio, raccontata con la semplicità e l'atrocità del punto di vista di un bambino. Una biografia romanzata che unisce l'accuratezza della ricerca storica e la passione nel raccontare una storia straziante. Un libro che fa male, ma che va letto.


Opera recensita: "Nebbia in agosto. La vera storia di Ernst Lossa che lottò contro il nazismo" di Robert Domes
Editore: Mondadori
Genere: biografia romanzata
Ambientazione: Germania, 1933-1944
Pagine: 336
Consigliato: sì
Voto personale: 10.


lunedì 17 agosto 2020

RECENSIONE: JOHN DOUGLAS - NELLA MENTE DEL SERIAL KILLER


Sinossi:
La storia vera di come John Douglas, agente dell'FBI e pioniere dei cosiddetti serial killer profiler, partecipò alla caccia di uno dei più conosciuti serial killer della storia statunitense. Per 31 anni l'uomo, che si firmava BTK (Bind Tortur Kill - Lega Tortura Uccide) ha terrorizzato la città di Wichita, in Kansas, aggredendo, violentando e strangolando moltissime vittime, deridendo la polizia e vantandosi dei suoi crimini efferati con giornali e televisioni. Dopo i primi omicidi scomparve nel nulla, per riapparire nove anni dopo, lamentandosi della poca attenzione ricevuta e rivendicando altri delitti a lui non attribuiti. Quando finalmente fu catturato, si rivelò essere Dennis Rader, sessantunenne uomo di chiesa, sposato e padre di due figli. John Douglas, rinomato per aver aiutato a risolvere altri casi, fu convocato come consulente per i delitti di BTK nel 1980 e collaborò alle indagini fino al definitivo arresto. Dopo la sentenza, ottenne interviste esclusive non solo da Rader, ma anche dai suoi familiari ed amici.

Commento:
Nella mente del serial killer è il racconto, fatto dalla voce autorevole di chi ha contribuito al suo arresto, della storia criminale di un uomo che per trent'anni ha ucciso almeno dieci persone, soprattutto donne, in una cittadina del Kansas riuscendo a condurre una doppia vita e a non farsi prendere pur irridendo la polizia, rimproverandola per non avergli attribuito tutti i delitti e non avergli dedicato abbastanza attenzione. Quest'uomo è Dennis Rader, nella dimensione privata sposato, padre di due figli, assiduo frequentatore della Chiesa, nella dimensione "pubblica", quella da killer, è conosciuto come BTK, lega, tortura, uccidi. Grande appassionato di bondage e amante delle legature con corde, stoffa, biancheria intima, Btk ama torturare psicologicamente le sue vittime, far sì che l'assoggettamento duri a lungo, perché sappiano di essere in suo potere; dopo di che le strangola o le soffoca e molto spesso si masturba sul cadavere. Sceglie con cura le sue vittime, è organizzato, fantastica lungamente su cosa potrebbe far loro, ma spesso imprevisti e contrattempi lo costringono ad affrettare i tempi di esecuzione dell'omicidio. I ricordi del delitto, i particolari, placano temporaneamente la sua fame perenne di vite umane. Per John Douglas e per molti altri agenti Btk è stato inafferrabile per trent'anni, salvo poi tradirsi proprio per uno smodato desiderio di notorietà, di fama, che l'ha portato a fidarsi della polizia. Una volta in prigione, mentre scontava la condanna a dieci ergastoli, Douglas l'ha incontrato ed intervistato; nel libro, oltre al resoconto dell'attività criminale di Rader, troviamo l'intervista, molte considerazioni di Douglas e, cosa più interessante, alcune parti del diario di Btk. In generale posso dire che il libro mi sia piaciuto, affronta la vicenda con approccio professionale, tecnico, psicologico, senza sensazionalismi eccessivi ma neppure limitandosi ai fatti. Tuttavia ciò che mi ha disturbato è stata la presenza di fatti personali, giudizi, esternazioni esplicite dell'autore: l'odio e il disprezzo mostrati da Douglas verso Rader e altri come lui sono comprensibili, ma forse non avrei voluto trovarli in un libro.
A parte questo, a chi ama il true crime e i serial killer questo libro potrebbe piacere. Una piccola avvertenza: dati gli argomenti trattati, è scontato che ci siano scene crude che a qualcuno potrebbero dar fastidio.

Opera recensita: "Nella mente del serial killer" di John Douglas
Editore: Edizioni clandestine, 2008
Genere: biografia, true crime
Ambientazione: Wichita, Cansas, Stati Uniti
Pagine: 298
Prezzo: 15,00 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8,5.


domenica 16 agosto 2020

RECENSIONE: MANUEL RIVAS - LA LINGUA DELLE FARFALLE


Sinossi:
Quelle di Rivas sono storie sbalzate in un mondo perduto tra le nuvole. Eppure contengono un brivido di concretezza, affondano dolcemente spietate nei sentimenti, nelle incomprensioni e negli stupori, mischiando ossessioni ultramoderne e atavici dolori. Rivas è soprattutto autore di racconti e qui sono riuniti i migliori delle tre raccolte più conosciute, sotto il titolo di un testo che ha ispirato nel 1999 il film di José Luis Cuerda La lingua delle farfalle, vicenda imperniata sul rapporto tra uno scolaro e un anziano maestro rurale, tra le contraddizioni della Spagna allo scoppio della Guerra civile.

Commento:
Molti anni fa, quand'ero ancora al liceo, vidi un film in spagnolo che mi commosse profondamente e si impresse per sempre nella mia memoria. Quel film bellissimo, che consiglio a tutti, era La lengua de las mariposas di José Luis Cuerda con Fernando Fernàn Gomez. Quando, poche settimane fa, ho scoperto dell'esistenza di un libro dal titolo omonimo, La lingua delle farfalle, ho subito compreso che doveva esserci un nesso, e infatti è così: La lingua delle farfalle è il primo racconto di questa raccolta ed effettivamente ha ispirato il film di Cuerda. Il problema è, però, che si tratta di un solo racconto, immerso in tutti gli altri… che sono, da questo e fra loro, molto diversi. Tutti hanno a che fare con i sentimenti e le passioni umane che vengono qui affrontate con diversi gradi di tetragine, dalla tenerezza del racconto che dà il titolo alla raccolta, alla cupezza forse eccessiva di altre storie. Ciò Di alcuni racconti, quelli che poi ho effettivamente apprezzato, conservavo un ricordo vago, come se li avessi già letti in un tempo passato, ma altri mi hanno sorpresa e non in positivo: non che siano brutti, intendiamoci, ma ho trovato che i racconti fossero troppo diversi tra loro, in un climax ascendente di cupezza e surrealismo che, in definitiva, li separava l'uno dall'altro e non contribuiva a creare un unicum narrativo. Probabilmente ciò si deve alla scelta di compattare il meglio di tre precedenti raccolte di Rivas che probabilmente non si è rivelata propriamente felice, almeno a mio gusto. Perciò non mi sento di consigliare né di sconsigliare questa specifica raccolta: credo sia un gusto troppo soggettivo, troppo legato alla percezione e allo stato d'animo con cui ci si avvicina ai racconti. Resta il fatto che i primi, secondo me, sono bellissimi.

Opera recensita: "La lingua delle farfalle" di Manuel Rivas
Editore: Feltrinelli, 2005
Genere: raccolta di racconti
Ambientazione: Galizia
Pagine: 142
Prezzo: 10,00 €
Consigliato: sì/no
Voto personale: 6,5.


sabato 15 agosto 2020

RECENSIONE: LEONARDO SCIASCIA - IL MARE COLORE DEL VINO


Sinossi:
È un libro di racconti scritti fra il 1959 e il 1972. Così Sciascia stesso: "... mi pare di avere messo assieme una specie di sommario della mia attività fino ad ora e da cui vien fuori... che in questi anni ho continuato per la mia strada, senza guardare né a destra né a sinistra (e cioè guardando a destra e a sinistra), senza incertezze, senza dubbi, senza crisi (e cioè con molte incertezze, con molti dubbi, con profonde crisi); e che tra il primo e l'ultimo di questi racconti si stabilisce come una circolarità". Una circolarità che non ha per nulla intaccato, e anzi esalta, la felicità e l'efficacia delle storie qui riunite come in un breve compendio delle molte voci narrative di Sciascia.

Commento:
Questa raccolta di racconti scritti da Sciascia tra il 59 e il 72 ha come trait d'union l'ambientazione, ossia la Sicilia e le sue varie anime e declinazioni. Mantenendo come denominatore comune l'isola, infatti, sono molti e vari i temi di cui si può parlare e Sciascia, da gran conoscitore della Sicilia, delle sue bellezze e nemesi, nonché dell'animo umano, ce ne offre qui un nutrito assaggio. Ci si ritrova quindi a parlare della morte di un Cardinale per mano di un furbastro considerato lo scemo del villaggio, dell'etimologia della parola Mafia e di una sua applicazione pratica, di qualcosa che mafia non è ma per essa viene spacciato, di una storia di infedeltà pubblicata sul giornale che getta scompiglio fra i notabili d'un paesino, della rimozione di una statua di Stalin paragonata a quella di una santa inesistente, scusa questa, per affrontare il credo religioso e quello politico. E fra queste e altre miserie dell'animo umano svetta la sincera e impenitente voce d'un bambino che, dal finestrino di un treno, osa affermare che il mare, in Sicilia, ha il colore del vino. Ed è proprio così: basta poco per perdonare agli uomini le loro bassezze, in fondo, basta girare lo sguardo e lasciarsi ammaliare da quella distesa cangiante che ubriaca e stordisce.
Una lettura molto gradevole ed interessante in cui immergersi in questi giorni di calura agostana, sia per la verve intrinsecamente ironica della scrittura di Sciascia, sia per la varietà dei temi trattati, sia per la brevità dei racconti che ne favorisce la lettura quando la concentrazione si mantiene per poco. E da ultimo una constatazione personale: sono arrivata a leggere Sciascia molto tardi, ma pian piano sto scoprendo un autore di cui apprezzo molte cose. Non posso che esserne lieta.

Opera recensita: "Il mare colore del vino" di Leonardo Sciascia
Editore: Adelphi, prima ed. 1973
Genere: raccolta di racconti
Ambientazione: Sicilia
Pagine: 148
Prezzo: 10,00 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8,5.


giovedì 13 agosto 2020

RECENSIONE: FRANCESCO LONGO - MOLTO MOSSI GLI ALTRI MARI


Sinossi:
Rimpianti e attese, sembra non possano esistere altri stati d’animo nella Baia di Santa Virginia, una spiaggia sotto un promontorio cupo e selvaggio. Quando la radio annuncia l’arrivo di una tempesta anomala che si abbatterà sulla costa, i ragazzi che hanno passato lì tutte le estati della loro vita tornano per cavalcare le onde epiche che hanno sempre invocato.
Michele, l’unico di loro a essere nato a Santa Virginia – conosce a memoria ogni quercia e sentiero del promontorio –, oltre all’allerta meteo riceve la notizia che Micol si sta per sposare. È la ragazza riccia, elegante e inafferrabile che ha conosciuto tanti anni prima, in un bagno tra i cavalloni di fine stagione. L’ha attesa e sognata giorno e notte per anni, finché non ha fatto di tutto per dimenticarla.
Lei e Michele sono sempre stati sul punto di dirsi qualcosa che non si sono mai detti, perché ogni volta settembre li separava. Lui trascorre gli inverni a letto con lunghe febbri, aggiustando biciclette con il padre, osservando la luna con il telescopio, immaginando lo sbarco degli alieni, incatenato allo splendore del luogo da cui non vuole allontanarsi. Intimidito, reticente, ultimo dei romantici, diventa l’unico punto fermo del gruppo di ragazzi benestanti e abbronzati che vanno e vengono tra Roma e le loro ville al mare. È amico perfino di Guido, l’eccentrico leader della comitiva, che gli donerà la sua prima tavola da surf.
Molto mossi gli altri mari disegna la mappa perfetta della nostalgia, raccontando una storia d’amore fatta solo di silenzi, cresciuta tra gli innaffiamenti automatici dei giardini e le siepi curate, alimentata da infiniti giri in canoa e in bicicletta, vissuta tra il campo da ping-pong e la splendida piscina di Guido. Un amore plasmato dai tanti tramonti incandescenti e dai riti estivi di un luogo infestato di malinconia.
La luce dorata di settembre si riversa sulla scrittura stessa, una luce marina che proietta le ombre lunghe e minacciose del passaggio tra adolescenza e età adulta. Francesco Longo ha scritto un romanzo breve che ha il respiro largo di un classico. Ci convoca in quello spazio speciale in cui tutti, ogni anno, siamo stati eterni per tre mesi – da giugno a settembre – quando l’estate finalmente spalancava le porte ai desideri andati in letargo per tutto l’inverno.

Commento:
Il tempo è un'incognita che agisce sui sentimenti, sui rapporti umani, su di noi in modo imprevedibile e bizzarro. È più o meno questa la sintesi che mi sento di estrapolare dal bel romanzo d'esordio di Francesco Longo, un romanzo che parla di adolescenza, di attese, di nostalgia, di amore e di mare in un modo lieve, ma intenso ed intimo che non lascia indifferenti. Il tempo è ciò che fa sì che il sentimento che Michele prova per Micol sedimenti e cresca negli anni, che gli rimanga attaccato all'anima mentre passa gli inverni sempre lì, a Santa Virginia, nel posto in cui è nato e in cui l'ha conosciuta… attendendo nuove estati e nuove possibilità di rivederla. Ed è sempre il tempo, un altro tempo, a dare a questo rapporto mai concretizzatosi una svolta repentina e inattesa, al sopraggiungere di un settembre fosco di molti anni dopo. Molto mossi gli altri mari è una storia di prossimità, di vicinanze, di estati che si vorrebbero eterne, di sentimenti forti e possibilità mai esplorate… è una storia di attese e di sogni, di tentativi e ritrosie, di onde che si infrangono sugli scogli e travolgono tutto ciò che è sul loro cammino… e l'unica cosa che si può fare è provare a cavalcarle. Tutto sta, nel surf come nei sentimenti, a cogliere il momento esatto in cui prendere l'onda, non prima né dopo.
Quella di Francesco Longo è una prosa ricca nelle descrizioni, ma schietta ed essenziale nel racconto dei turbamenti di Michele e del gruppo di amici; un romanzo che indaga i sentimenti senza invaderne la sacralità, senza giudizi, ma solo con l'esortazione a viverli, a cogliere l'attimo.

Opera recensita: "Molto mossi gli altri mari" di Francesco Longo
Editore: Bollati Boringhieri, 2019
Genere: narrativa italiana
Ambientazione: Santa Virginia
Pagine: 177
Prezzo: 16,00 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8.


martedì 11 agosto 2020

RECENSIONE: DONNA TARTT - IL CARDELLINO


Sinossi:
Figlio di una madre devota e di un padre inaffidabile, Theo Decker sopravvive, appena tredicenne, all’attentato terroristico che in un istante manda in pezzi la sua vita. Solo a New York, senza parenti né un posto dove stare, viene accolto dalla ricca famiglia di un suo compagno di scuola. A disagio nella sua nuova casa di Park Avenue, isolato dagli amici e tormentato dall’acuta nostalgia nei confronti della madre, Theo si aggrappa alla cosa che più di ogni altra ha il potere di fargliela sentire vicina: un piccolo quadro dal fascino singolare che, a distanza di anni, lo porterà ad addentrarsi negli ambienti pericolosi della criminalità internazionale.
Nel frattempo, Theo cresce, diventa un uomo, si innamora e impara a scivolare con disinvoltura dai salotti più chic della città al polveroso labirinto del negozio di antichità in cui lavora. Finché, preda di una pulsione autodistruttiva impossibile da controllare, si troverà coinvolto in una rischiosa partita dove la posta in gioco è il suo talismano, il piccolo quadro raffigurante un cardellino che forse rappresenta l’innocenza perduta e la bellezza che, sola, può salvare il mondo. Tra le luci dell’Upper East Side di New York e la desolazione della periferia di Las Vegas, tra capolavori rubati e fughe vertiginose lungo i canali di Amsterdam, Il cardellino è un romanzo meravigliosamente scritto che si legge come un thriller. Primo assoluto nelle classifiche di Stati Uniti, Francia e Olanda, osannato dalla critica in patria come all’estero, è l’evento letterario dell’anno.

Commento:
Ho sentito e letto, per anni, lodi sperticate e quasi unanimi su questo romanzo e, in linea generale, non posso discostarmi dalla massa nel definirlo un buon romanzo: lo è, senza dubbio. Tuttavia, se in barba alla prolissità della Tartt volessi sintetizzare il mio commento in due parole, credo che direi "bello., ma…" e farei spallucce per chiarire meglio il punto di vista. Concretizzando e rendendo a parole il mio pensiero alquanto criptico, Il cardellino è un romanzo originale, lungo, complesso, che racconta la storia tristissima e realistica di un bambino di tredici anni, Theo Decker, che vede trasformarsi una normale mattina al museo nell'evento più tragico della sua vita, un evento che gliela cambierà irrimediabilmente, la vita. È il lungo memoir, il racconto sincero e senza filtri di un trentenne che rivive la sua vita dai tredici anni in poi, in un'autoanalisi onesta e spietata attraverso i primi mesi a New York presso la casa della famiglia di un amico, al folle periodo a Las Vegas, al tentativo fallito di riprendere i rapporti col padre, alla conoscenza con quello che diverrà uno dei suoi più grandi amici, al ritorno rocambolesco e drammatico nella sua città, al nuovo inizio, arrancando negli anni difficili dell'adolescenza, attraverso esperienze segnanti che lo macchieranno in modo indelebile. Sono tante le persone intorno a lui, tutte con un ruolo importante nella sua crescita, nel suo plasmarsi verso la persona che sarà. Ma più di tutto, ciò che risalta in questa storia è il rapporto con gli oggetti, e in particolare con gli oggetti d'arte, con gli oggetti che emanano bellezza. È come se per Theo fossero ancore tangibili e immutabili, reliquie, amuleti da preservare con la massima cura, quasi con sacralità, perché capaci di risollevarlo, di opporsi al brutto del mondo che lo circonda. È forte, la storia di Theo, è bella, a tratti commovente, a tratti adrenalinica, molto molto spesso estremamente triste. Eppure… non so cosa, in queste pagine, non mi abbia del tutto convinta: forse l'eccessiva lentezza e ripetitività di alcuni tratti, forse alcune scelte narrative un po' azzardate (la seconda parte, con Boris, l'escamotage dei vuoti di memoria…, la trasferta in Olanda…), forse anche lo spiegone finale mi ha irritata perché non l'ho trovato in linea con tutto il resto del romanzo e, in particolare, con il modo di raccontare di Theo. In definitiva, per quanto mi riguarda, Il cardellino è un ottimo romanzo che consiglio, ma che non è riuscito a sfondare la pur fragile barriera del mio cuore letterario e a conquistarmi.

Opera recensita: "Il cardellino" di Donna Tartt
Editore: Rizzoli, ed. originale 2013
Genere: narrativa americana
Ambientazione: Stati Uniti-Olanda
Pagine: 896
Prezzo: 17,00 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8.


domenica 9 agosto 2020

RECENSIONE: GEORGES SIMENON - LA FINESTRA DEI ROUET


Sinossi:
Un lento, soffocante pomeriggio estivo. In un modesto appartamento di Faubourg Saint-Honoré, una donna sta ricucendo un vecchio vestito. Al di là della sottile parete che divide la sua stanza da quella attigua, due corpi giovani si stiracchiano voluttuosamente dopo aver fatto l’amore. La donna sente tutto, immagina ogni gesto, come se li vedesse: nudi, «carne contro carne, avvinghiati, con la pelle luccicante di sudore ... si crogiolano in quel colore, in quell’odore di bestia umana». Nel lungo specchio rettangolare dell’armadio, prima di provarsi il vestito, si guarda i seni, li prende in mano, li stringe: nessuno sa quanto siano belli, ancora adesso che sta per compiere quarant’anni, nessuno sa che il suo corpo – mai sfiorato dalla mano di un uomo – è lo stesso di quando ne aveva sedici. Poi, come fa sempre, si avvicina alla finestra. Dall’altra parte della strada vive la ricca famiglia dei Rouet, proprietari non solo del palazzo in cui abitano, ma di buona parte dei palazzi intorno. Per ore e ore, da dietro le persiane accostate, la donna spia la loro esistenza: quella dei vecchi, al piano di sopra, e quella del giovane Hubert e della sua bella, irrequieta moglie Antoinette, al piano di sotto. Sarà lei, in questo assolato pomeriggio di luglio, l’unica testimone di qualcosa che potrebbe anche essere un omicidio. E da ora in poi la donna comincerà a vivere per procura la vita di Antoinette: una vita «fervida, invadente, in tutta la sua spaventosa ferocia», una vita «proibita», che a poco a poco diventerà la sua. Con La finestra dei Rouet, storia di una torbida ossessione, Simenon ha scritto uno dei suoi romanzi più sottilmente perversi.

Commento:
Estate, le tre di pomeriggio in una strada di Parigi. È la controra, l'ora del riposo, dei sospiri e delle persiane accostate, ma in Faubourg Saint-Honoré non tutti dormono: dietro alcune finestre la vita continua sommessamente. C'è chi fa l'amore, c'è chi sta di vedetta dalla sua torre o mansarda, c'è chi sta per avere il solito attacco che lo coglie ogni pomeriggio e dal quale si riprende con le gocce che sono sul comodino, c'è chi sta per rientrare a casa. Poi c'è Dominique che rammenda il suo vestito liso mentre ascolta i suoi giovani affittuari fare l'amore al ritmo di un tango nella camera attigua. Tra pochi minuti si alzerà e si accosterà alla finestra da dove guarderà la bella, sofisticata e vitale Antoinette Rouet rientrare in casa col suo tailleur bianco e dare le gocce al giovane marito Hubert, malato da tempo. Ma oggi qualcosa di impercettibile muterà la sequenza dei gesti: uno degli attori protagonisti della routine che osserva di solito farà in modo che qualcosa cambi irrimediabilmente. Da quel momento anche la vita di Dominique cambierà, diverrà sempre più ossessionata da Antoinette, la osserverà con più intenzione, entrerà di fatto nella sua vita scrivendole dei messaggi anonimi, comincerà a seguirla fino a farsi notare, fino a cercare quasi di ricalcarne le orme per vedere cosa si prova, per toccare con mano… lei che non ha vissuto, che non ha mai fatto niente. Dominique vive sola, confinata nella sua camera da letto, ingabbiata in una vita monotona, strozzata dall'indolenza e dalla sua solitudine. Perciò si abbevera, si disseta avidamente con i dettagli delle vite degli altri: osserva, studia, indovina, capisce, unisce i pezzi. E proprio quando un cambiamento inatteso rompe gli schemi, qualcosa di latente in lei si risveglia e la conduce ad un'ossessione morbosa e perversa. E Georges Simenon descrive, analizza, seziona maniacalmente questa ossessione in maniera magistrale. Impareggiabile nell'analisi dei comportamenti umani, l'autore si serve di un concetto quantomai comune, il cosiddetto "spiare dal buco della serratura" per mostrarci fin dove può arrivare la curiosità perversa unita ad un senso di vuoto, di muta solitudine, di abbandono, di fallimento. Così, proprio come accade a Dominique con la vita dei suoi vicini, Simenon ci incatena alle pagine in attesa di uno sviluppo, una svolta, un cambiamento. Arriveranno? Eh, per saperlo bisogna aspettare e stare a guardare.

Opera recensita: "La finestra dei Rouet" di Georges Simenon
Editore: Adelphi, ed. originale 1945
Genere: letteratura francese
Ambientazione: Parigi
Pagine: 177
Prezzo: 18,00 €
Consigliato: sì
Voto personale: 9.


RECENSIONE: ELEONORA E. SPEZZANO - HANS MAYER E LA BAMBINA EBREA


Sinossi:
Varsavia, 1941. Hans Mayer è un ufficiale della Wehrmacht, schivo e solitario, che si limita a percorrere ogni giorno la strada che lo separa dalla caserma cercando di non badare agli sguardi di disprezzo che lo circondano. Vive reprimendo un passato oscuro e turbolento dal quale cerca inutilmente di allontanarsi da anni. È chiuso in un circolo vizioso di incertezze che lo hanno portato a riflettere sul suo ruolo. Niente nella città monotona che è diventata Varsavia gli fa credere che le cose un giorno possano cambiare. Una sera d'autunno il destino lo mette alla prova, giocando una delle sue carte più pericolose, lanciandogli una sfida inizialmente impossibile che con il tempo si trasforma nella sua unica ragione di vita. La sua casa diventa l'unico porto sicuro in mezzo all'enorme campo di battaglia in cui si è trasformato il mondo, il luogo in cui nascondere tutto ciò che le altre creature dalle divise verde bottiglia non devono vedere. Il gelo crudele dell'Olocausto sta penetrando lentamente nel cuore degli uomini, ma Hans è pronto alla disobbedienza. Si ritroverà di fronte a un bivio, costretto a decidere se scommettere su tutte le sue sicurezze o rinunciare. L'innocente Marie è il suo segreto indicibile, la sua sfida al sistema, il suo inno alla libertà, una rincorsa verso la luce. Dove finisce, allora, il dovere morale e dove comincia l'imperativo della coscienza? Nella mostruosità di una singola immagine, in un labirinto contorto di cose, oggetti e persone, nelle parole sussurrate al buio, sottovoce, parole rubate per paura di un tradimento, negli incubi notturni che prendono forma, in una continua e convulsa lotta per la sopravvivenza. La penna della giovane Spezzano, agile e commovente allo stesso tempo, accarezza le ferite dell'anima e quelle della Storia, sa sapientemente narrare di una fuga ineluttabile alla ricerca del tepore esistenziale, con un tocco delicato e morbido, privo di pietismo. Hans Mayer e la bambina ebrea è un ritratto intenso e drammatico del capitolo più cupo del Novecento che dimostra la forza potente di un amore puro, incondizionato e ribelle.

Commento:
Hans Mayer è un giovane ufficiale della Wehrmacht. Se avesse potuto scegliere cosa essere, sicuramente avrebbe fatto altro, lui che non condivideva, anzi disprezzava le idee naziste, ma qualcun altro in passato scelse per lui. Così nel 1941 Hans si ritrova a perlustrare la fredda Varsavia nella sua divisa verde bottiglia, alla ricerca dei pochi ebrei rimasti da scovare e far deportare. Non è contento di sé, non è contento della sua patria, ma non può ribellarsi. A perlustrazione finita, Hans è rimasto indietro dai compagni, per questo è l'unico a notare una bambina di quattro anni che si aggira sola tra le case tristemente abbandonate. È spaventata, ma fiera e intelligente e Hans sa che non può restare lì da sola, così, non riuscendo a trovare la sua famiglia, fa una scelta che gli cambierà la vita: la porta a casa sua. Ancora non sa che Marie è ebrea, che i suoi genitori e il suo fratellino Oscar sono stati catturati e che le SS la cercano spasmodicamente perché non possono permettere che sfugga. Hans dovrebbe cercarla e finge di farlo, ma in realtà si sta affezionando a quella bambina che gli sta facendo vedere il mondo in modo diverso, che lo sta risvegliando dal torpore del vittimismo e del dolore che si trascina addosso da tanti anni. E sarà proprio la scelta di tenerla con sé che darà origine a una storia di coraggio e un pizzico di follia, ma tanto, tanto cuore: Hans rischierà la tranquillità familiare, la felicità, la vita per salvarla e per riunire finalmente una famiglia. Incontrerà gente d'ogni risma, vedrà l'inferno da vicino, ma troverà se stesso, gli amici che non aveva mai avuto e l'amore che credeva d'aver perduto per sempre.
Hans Mayer e la bambina ebrea è un bel romanzo, corposo ma scorrevole, nonostante la potenza emotiva delle vicende narrate. È scritto in modo schietto e diretto; la prosa è semplice, a tratti fin troppo naif, ma questo è ampiamente giustificato dalla giovane età e dall'inesperienza dell'autrice; la storia è, in compenso, davvero profonda e scritta in modo chiaro, senza dietrologie, artifici o sottintesi. Eleonora Spezzano scrive con passione e coraggio un romanzo che indaga una delle pagine più buie della storia mondiale ed è sorprendente la padronanza narrativa che dimostra a solo quindici anni. Siamo di fronte a una giovane autrice esordiente che, ne siamo certi, farà ancora parlare di sé.

Opera recensita: "Hans Mayer e la bambina ebrea" di Eleonora E. Spezzano
Editore: Bonfirraro, 2020
Genere: romanzo storico
Ambientazione: Polonia-Germania-Svizzera, 1941
Pagine: 396
Prezzo: 18,90 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8,5.


sabato 8 agosto 2020

RECENSIONE: GABRIELLA GENISI - GIOCO PERICOLOSO (LOLITA LOBOSCO 04


Sinossi:
Una nuova indagine del commissario Lolita Lobosco. Durante la partita decisiva per la qualificazione in serie A del Bari, al san Nicola muore un giocatore. Una morte naturale, si direbbe, però con qualche mistero di troppo. Pochi mesi dopo, infatti, il commissario Lolita, indagando su quello che a tutti è sembrato un incidente, si imbatte in un intrigo internazionale destinato a colpire le fondamenta del calcio italiano. Un losco mix di sport e malavita che rischia di sconvolgere anche la vita di Lolì.

Commento:
In una Bari dalla vitalità smorzata dalla crisi economica, poche cose restano alla gente per sperare, far festa ed esultare. E quando una delle più sacre, il calcio e più specificamente la biancorossa Bari calcio, viene insozzata dal torbido, allora anche l'aria natalizia è funesta e sottotono. Funesto, sottoterra e nero come l'uva è pure il morale della commissaria Lolì, alla quale non c'è che dire, l'amore non sorride proprio. Le cose con Giovannisuo – il bel sostituto procuratore Panebianco, per intenderci – non vanno bene per niente e la solitudine si sa, si fa sentire specie sotto le feste e specie per una che non è fatta per stare sola. E tuttavia, ben presto Lolì dovrà sforzarsi di distogliere i pensieri foschi dall'amoresuo e concentrarsi sul lavoro: c'è un'indagine complessa ad attenderla, un'indagine a cui è arrivata lei, col suo fiuto sbirresco che le cose che non vanno gliele fa intuire da lontano. Quando il capitano del Bari Domenico Scatucci muore in campo durante il decisivo derby Bari-Lecce, tutti sono sgomenti, ma nessuno può ancora immaginare cosa salterà fuori diversi mesi dopo, in seguito alla morte di uno che col calcio sembrava non c'entrare nulla, Vittorio Lamuraglia, un vecchio amico di Lolita che peraltro ci aveva parlato giusto prima che venisse investito da un camion. Ciò che viene fuori è, a tutti gli effetti, un intrigo internazionale, anzi mondiale, che scuote il calcio, i giocatori, i tifosi, dalla Lega Pro ai Mondiali. E tutto passa per Bari, per i quartieri degradati e per quelli della Bari bene, per la malavita e l'élite… gente losca e figure insospettabili, tutti uniti nella venerazione del dio denaro. Fra incontri piacevoli tra colleghe, turbamenti amorosi, vino e piatti succulenti, il commissario Lolì conclude un'altra indagine che, stavolta, la mette seriamente – sebbene inconsapevolmente – in pericolo. Ma lei va dritta sulla sua strada, sulle sue Loboutin tacco 12 e a noi piace così, impavida, che prende la vita di petto, con gioie, dolori e rogne.
Gioco pericoloso, il quarto capitolo di questa bella serie, è un giallo-rosa godibile, che forse mi è piaciuto un filo meno dei precedenti, ma semplicemente perché non riesco a farmi piacere Giovannimio e il suo modo così incolore di vivere l'amore. Detto questo, ancora un giallo esuberante, leggero ma non troppo, piacevole da leggere. Lolita e Gabriella Genisi non deludono mai.

Opera recensita: "Gioco pericoloso" di Gabriella Genisi
Editore: Sonzogno, 2014
Genere: giallo, seriale
Ambientazione: Bari
Pagine: 191
Prezzo: 12,00 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8.