Sinossi:
Il romanzo ha come titolo completo "Vanity Fair: a
novel without a hero", ovvero "La fiera della vanità: un romanzo
senza un eroe". La vera protagonista
della storia è infatti la società con le sue contraddizioni:
apparentemente si esalta la condotta secondo moralità, ma in realtà di ogni
cosa si reclama
solo l'apparenza e vittorioso è sempre il più furbo, mai il
più buono. A rappresentare i due tipi di condotta due personaggi femminili:
l'ingenua, pura
e ricca Amelia Sedley e l'arrivista, povera e intelligente
Becky Sharp. Il filo dell'ipocrisia legherà la scalata sociale della prima
all'esistenza inutilmente
votata alla rispettabilità della seconda.
Commento:
Chi di noi, leggendo i romanzi inglesi del primo Ottocento,
non ha pensato almeno una volta che la società di quell’epoca fosse piena di
ipocrisia e disturbante, falso perbenismo? Beh, è proprio su questo concetto
semplice che si basa il lungo romanzo di William Makepeace Thackeray che in
quella società ci viveva e che poté osservarla con occhio critico e deplorarne
la falsa moralità con acume.
In questa storia gli apparenti protagonisti sono i Sedley, i
Crawley, gli Osbourne e tutti coloro che, a vario titolo, hanno a che fare con
loro; ma la vera, indiscussa e dileggiata protagonista è niente meno che l’intera
società inglese di cui queste famiglie facevano parte, sottoposta ad un giudizio
impietoso ed imparziale: “La fiera della vanità” è senza dubbio la definizione
che meglio riassume il pensiero dell’autore di questo libro sulla società in
cui vive, che premia la furbizia, l’arrivismo, la scaltrezza a discapito della
bontà di cuore e dei buoni sentimenti. In questa società, infatti, gli
intriganti come Mrs Rebecca trovano sempre il modo di spuntarla, i parvenues
come gli Osbourne hanno più denaro che cervello e considerano un posto in
società più importante di un matrimonio d’amore; una famiglia d’alto lignaggio
come i Crawley preferisce nascondere sotto il tappeto le magagne e i dissapori
tra i suoi membri piuttosto che dare esempio di tolleranza ed apertura sociale.
Tutti questi comportamenti ed atteggiamenti hanno,
indiscutibilmente, delle forti ripercussioni sociali e sono forieri di
conseguenze spesso nefaste per chi li pone in essere e chi lo circonda. Sono
queste le critiche, per nulla velate, che il narratore esterno ed onnisciente di
questa vicenda intricata rivolge al proprio mondo: “La fiera della vanità” è
una critica mordace, ironica e conclamata di una società viziata e corrotta dal
prevalere dell’apparenza sulla nobiltà d’animo.
Uno spaccato veritiero ed impietoso della società britannica
dell’Ottocento che, a mio avviso, vale la pena leggere nonostante sia talvolta
troppo prolisso e minuzioso. Forse non consiglierei questo libro a chi proprio
non sopporta i romanzi della Austen o simili, perché pur criticando il
perbenismo dilagante, questo libro ne è intriso: l’autore, suo malgrado, ha dovuto
servirsene a piene mani per spiegarne le criticità.
Opera recensita: “La fiera della vanità” di William
Makepeace Thackeray
Editore: Bur, prima ed. originale 1848
Genere: letteratura inglese
Ambientazione: Inghilterra, prima metà dell’Ottocento
Pagine: 874 (ed. Bur 2007)
Prezzo: 13,00 €
Consigliato: sì
Voto personale: 8.
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