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domenica 17 settembre 2017

RECENSIONE: HANNAH ARENDT - LA BANALITà DEL MALE


Sinossi:

Otto Adolf Eichmann, figlio di Karl Adolf e di Maria Schefferling, catturato in un sobborgo di Buenos Aires la sera dell'11 maggio 1960, trasportato in

Israele nove giorni dopo e tradotto dinanzi al Tribunale distrettuale di Gerusalemme l'11 aprile 1961, doveva rispondere di 15 imputazioni. Aveva commesso,

in concorso con altri, crimini contro il popolo ebraico e numerosi crimini di guerra sotto il regime nazista. L'autrice assiste al dibattimento in aula

e negli articoli scritti per il "New Yorker", sviscera i problemi morali, politici e giuridici che stanno dietro il caso Eichmann. Il Male che Eichmann

incarna appare nella Arendt "banale", e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori sono grigi burocrati.

 

Commento:

In questo saggio, scritto nel 1963, Hannah Arendt analizza il processo, tenutosi a Gerusalemme nel 1961, ad Eichmann. Chi fu Eichmann? Non il peggiore, ma uno dei tanti funzionari nazisti che parteciparono alla “Soluzione finale” ed allo sterminio degli ebrei. Uno dei tanti, appunto, non il peggiore: un particolare importante perché lo scopo del libro non è, in realtà, raccontare la storia di Eichmann perché diversa dalle altre, ma dimostrare che il male non è qualcosa di grande, impressionante, mostruosamente alieno, ma che esso è nella vita quotidiana, nella politica, nel mondo del lavoro, nella giustizia, nelle piccole cose. Il male è mediocre e banale, perciò è così terribile, specie quando è istituzionalizzato e si insinua nelle decisioni sulla vita altrui.

All’irrimediabile farsa nella quale si trasforma il processo, Eichmann appare come uno stupido, un uomo che non sa bene cosa gli accade intorno, uno che non ricorda, non è in grado di decidere né ha mai deciso nulla consapevolmente perché non è capace di pensare con la propria testa. E’ questa l’immagine che passa di un criminale nazista corresponsabile della morte di milioni di persone, immagine se possibile migliorata dal fatto che egli tentò, a suo dire, di trovare una soluzione che favorisse gli ebrei facendoli uscire dal Paese lasciando loro un po’ di terra sotto i piedi. Questo è giusto un accenno per farvi capire che persona fosse Eichmann. Più in generale, il racconto della vicenda Eichmann si rivela ben presto un pretesto che l’autrice usa per parlare diffusamente dell’avvento del nazionalsocialismo, delle leggi raziali, dell’olocausto, delle soluzioni, dei mille fraintendimenti e falsi equivoci che portarono allo sterminio. Tutto questo viene descritto con puntuale minuzia, ma le denunce della Arendt non sono dirette, bisogna leggere fra le righe per capire bene qual è la sua posizione. Di certo l’autrice non risparmia nessuno, neanche gli ebrei e il neonato Stato israeliano.

Personalmente ho trovato disturbante la perenne ambiguità delle pagine, che si dissipa finalmente nell’ultimo capitolo conclusivo. Ho fatto molta fatica a concludere la lettura, ma credo che oltre ad essere complesso questo libro sia utile: è complesso per i tanti sottointesi e per la precisione del racconto con nomi, episodi e fatti; è utile perché incita ad approfondire l’argomento per comprendere meglio ciò che viene narrato… e, vista l’importanza del tema, approfondire non può essere altro che un bene.

 

Opera recensita: “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” di Hannah Arendt

Editore: Feltrinelli, prima ed. 1963

Genere: saggistica

Ambientazione: Gerusalemme-Germania

Pagine: 320

Prezzo: 11,00 €

Consigliato: sì.

 

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